L’etica di servizio marchio del nuovo capitalismo

L’etica di servizio marchio del nuovo capitalismo – Articolo apparso su Italia Oggi il 27 Luglio 2002

Mentre durava la “società industriale”, il tessuto sociale del capitalismo appariva dominato da “classi”, cioè da raggruppamenti il cui fattore di coesione era il possesso, o l’ esclusione dal possesso, dei mezzi di produzione. Le classi fondamentali erano la classe imprenditoriale (soprattutto i proprietari delle fabbriche) e quella operaia (persone che vivevano vendendo la propria forza – lavoro). E’ questa ovviamente una semplificazione, dato che esistevano altre aggregazioni; ma le due classi indicate integravano le unioni più importanti perché su esse era imperniata la dinamica sociale e le relative lotte.
Quando comincia il periodo postindustriale (attorno agli anni ’70 del XX secolo) il capitalismo vede svilupparsi due nuovi raggruppamenti il cui rapporto con la conoscenza scientifica (mezzo di produzione fondamentale apparso appunto in quel periodo) costituisce la ragione della coesione. E’ più corretto chiamarli “ceti”, ossia insiemi di attori sociali basati sul rilievo sociale delle funzioni e sul prestigio che ne deriva.
Come detto, entrambi questi ceti devono confrontarsi col fattore “conoscenza”, ma ciò avviene in maniera differente. Essi sono:
1 – Il ceto imprenditoriale. E’ formato da operatori che sanno costituire e gestire le imprese, cioè le organizzazioni di uomini e di mezzi con cui si possono produrre beni o servizi; nella fase postindustriale, sulla base di conoscenze scientifiche – tecnologiche che caricano di valore – e rendono perciò desiderabili da parte del pubblico – tali beni o servizi. Il ceto è molto vasto e differenziato, ma il suo fondamento è dato sempre dall’ impresa, nelle diverse forme che a questa sono riconosciute dagli ordinamenti giuridici: impresa individuale, impresa collettiva, società dotata di personalità giuridica, società anonima (il cui capitale può ampiamente variare fino alla grande anonima transnazionale).
2 – Il ceto dei professionisti, ossia di coloro che, essendo in possesso di un’ abilità non generica ma specifica, acquisita nelle università o in altre scuole superiori (alias il controllo di un ramo del sapere necessario alla vita individuale e collettiva) vivono dei proventi dell’ azione professionale mediante servizi offerti a “clienti”. Questo ceto, verso la fine del XX secolo, viene da parecchi autori ricondotto alla nozione di knowledge workers, o lavoratori della conoscenza, una nozione che negli anni ’90 diventa molto importante e che attualmente è accettata dagli studiosi che vedono nel “capitale umano” la base di tutto il processo produttivo.
Il capitalismo odierno ha bisogno di entrambi questi ceti, mentre non ha altrettanto bisogno di aggregazioni sociali di altro tipo, di cui tuttavia fa uso per utilità marginali. Ciò significa che nelle società postindustriali vi sono forze umane le cui prestazioni (pur utilizzabili) possono essere surrogate (da macchine, meccanismi automatici, robot, ecc.) tanto facilmente che è improprio parlare nei loro riguardi di un bisogno reale del capitalismo.
E’ importante riconoscere che tra i due ceti (imprenditori e knowledge workers) si forma un’ ampia zona di compenetrazione, nella quale stanno numerosi operatori economici, esperti nello stesso tempo di un particolare settore dello scibile, e viceversa. Si tratta di imprenditori – professionisti o di professionisti – imprenditori che di fatto cumulano in sé entrambe le qualifiche, partendo ora dall’ uno ora dall’ altro dei due settori. Per esempio, ingegneri, informatici, esperti di comunicazione, pubblicità, fotografia, design, moda, ecc., che creano un’ azienda di cui diventano titolari o azionisti. Oppure imprenditori che acquisiscono in itinere competenze specifiche di tipo professionale, per cui è difficile dire (ad un certo punto della loro evoluzione) se sono più professionisti o più operatori economici. La fascia “mista” tende ad estendersi perché tra i due gruppi esiste un’ attrazione reciproca derivante da interessi conoscitivi, senza i quali né l’ imprenditore né il professionista possono in realtà stare sul mercato.
La complessità dei due ceti, oltre che per il grande numero delle specialità, è una conseguenza del fatto che essi rappresentano dei punti di riferimento verso i quali sono attratte altre sezioni umane. Ricadono gradualmente nel ceto imprenditoriale, per esempio, individui e gruppi che aspirano a costituirne sottospecie significative, perché adatte a certe esigenze sociali: come artigiani, operatori individuali che guardano all’ impresa come ad un approdo qualificato, dipendenti di un’ impresa che cercano di costituirne un’ altra portandosi via la competenza acquisita nella prima, ecc.. Ricadono nel ceto professionale numerosi “manager” professionalizzati che ambiscono all’ autonomia e perciò si allontanano dalla concezione del manager come burocrate dipendente. E la vasta categoria dei membri delle “burocrazie professionali”, quella parte cioè della burocrazia che è dotata di competenze professionali (formata da giuristi, ingegneri, chimici, biologi, statistici, informatici, medici, veterinari, sociologi, docenti di vario genere, esperti di scienze dell’ organizzazione, economisti, ragionieri, ecc.), la quale si discosta dal modello weberiano di burocrazia e reclama una più larga libertà di movimento e di iniziativa per poter dare efficienza all’ organizzazione burocratica.
I due ceti si sintonizzano sullo spirito acquisitivo, produttivo, e competitivo del capitalismo attraverso un’ etica di nuovo genere: un’ etica di servizio, perché basata non sulla cessione di beni, ma su performances personali in favore di individui o gruppi sociali. Un’ etica molto diversa dalle etiche che furono proprie dei protagonisti della produzione manifatturiera. Com’ è vero che i servizi hanno costituito un momento economico posteriore e diverso rispetto alla manifattura, è vero anche che la mentalità di servizio integra una fase più avanzata rispetto all’elementare rapporto produttore / compratore, che connotava tipicamente l’ epoca industriale.
Entrambi i ceti devono porre in atto prestazioni “in favore di” qualcuno, e impegnarsi a fondo perché tali prestazioni siano soddisfacenti per i rispettivi fruitori. Per entrambi dunque è essenziale avere dei “clienti” disposti a ricevere le prestazioni. Le vecchie etiche non contano più. Il capitalismo odierno non richiede sacrifici ascetici né eccessi stakanovistici, cioè sforzi produttivi titanici. Domanda invece prestazioni di qualità, atte a soddisfare bisogni sociali sempre più sofisticati. C’ è però una differenza in tema di etica nei due ceti: l’ etica di quello imprenditoriale ha come sfondo la rimunerazione vantaggiosa di ciò che viene fatto e dunque il guadagno, che diviene un obiettivo primario; l’etica di quello professionale riposa sull’ impegno nel livello quantitativo del servizio e sul prestigio che ne deriva per il singolo operatore. Ma per entrambi i ceti è difficile stare sul mercato se non si pone in atto questo tipo di etica.
Essa rappresenta ciò che rimane del lato altruistico del sistema, nella misura in cui fa corrispondere l’ altruismo con la buona qualità del servizio. In sostanza il comportamento di una persona è etico se ciò che realizza in favore di terzi è di alta qualità, coerente con le conoscenze più avanzate, ed efficiente. Rispetto alle etiche ascetiche del passato, inclusa quella weberiana del beruf, la nuova etica di servizio si basa essenzialmente sulla capacità di fornire un prodotto di qualità (e perciò competitivo) nell’ attuazione dell’ attività personale. In questo senso l’ etica moderna dei due ceti è un’ etica sociale, che però non ha più nulla di missionario o di mistico, e molto di pragmatico e di sensibile al soddisfacimento delle attese. Un’ etica che è protesa ai risultati, intesi come rispetto delle aspettative.
Non si può negare la sua importanza come veicolo morale d’ un capitalismo che punta all’ eccellenza, e che, per attuare quest’ultima, instaura una competizione incessante, la quale non ammette distrazioni o negligenze. L’attuale spirito del capitalismo coincide in gran parte con questo eterno, mai interrotto, confronto. Anche la crisi di questo capitalismo è, non a caso, una crisi etica; essa esplode, con varie manifestazioni, attorno a noi, e noi siamo, forse, proprio in mezzo alla burrasca etica che agita l’ assetto capitalistico attuale.

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