di Gian Paolo Prandstraller
Fenomeno è ciò che appare, l’aspetto che una certa realtà fa vedere di sé. Qualcosa che ha una stretta parentela col processo che chiamiamo “ visualizzazione”, consistente nel rendere visibile un’entità di per sé non visibile. Fenomenologia è il discorso sui fenomeni, l’individuazione e descrizione di questi nella loro singolarità e nei rapporti con altri fenomeni.
Una fenomenologia rispecchia sempre una realtà determinata. Da una realtà emergono certi fenomeni, da un’altra Read More
Nord Est, giovani, prospettive. Il lavoro di conoscere – Articolo
apparso sul Corriere del Veneto il 22 gennaio 2005
Durante la protesta avvenuta a Roma giorni or sono, gli insegnanti si sono definiti come “lavoratori della conoscenza”. L’evento contribuisce ad introdurre nel lessico e nella prassi sindacale una classificazione importante, quella – appunto – di lavoratore della conoscenza.
Il fenomeno riguarda in pieno il Nord Est, dato che i knowledge workers costituiscono una componente essenziale d’ogni società che fondi la propria produzione su saperi specifici, cosa che presto anche per il Nord Est sarà inevitabile.
Negli anni ’90 si cominciò a chiamare knowledge workers il gruppo umano che svolgeva attività basate su tali saperi, traendone i mezzi di vita e le funzioni; esso era caratterizzato dal ricorso costante ai principi fissati dalle scienze, dal requisito dell’autonomia, e da un’etica incorporata in codici etici.
L’identità sociologica dei knowledge workers è stata definita (soprattutto nei paesi anglosassoni) in una progressione che può essere riassunta come segue:
In una prima fase si è pensato vi rientrassero i professionisti appartenenti a professioni riconosciute (architetti, ingegneri, giornalisti, avvocati, medici, biologi, economisti, matematici, farmacologi, geologi, veterinari, commercialisti, astronomi, ecc.); gli addetti a funzioni superiori nei grandi servizi come la difesa, l’istruzione, la ricerca, la formazione, la comunicazione, ecc.; i managers dell’industria e del sistema finanziario dotati di preparazione specifica; infine i docenti universitari e i livelli medi o alti dell’insegnamento e della formazione.
Dopo la pubblicazione del libro di Richard Florida “The rise of the creative class” (2002), la definizione è stata allargata ai “creativi” – come scrittori, pubblicisti, registi, sceneggiatori, editori, artisti, designers, stilisti, illustratori, ecc., – e in genere a coloro che attraverso la propria inventività migliorano la vita civile e produttiva.
Si profila ora un nuovo allargamento della categoria che può essere molto importante: riguarda gli “imprenditori illuminati”, quelli che hanno compreso che una produzione valida presuppone un’efficace ricerca e idee innovative. Tale species da noi non è ancora molto estesa, ma la necessità di far leva sulle scienze per fronteggiare la sfida cinese lascia pensare che presto vi sarà anche da noi una trasformazione dell’imprenditore in un senso cognitivo.
Il gruppo dei knowledge workers è in evidente ascesa: la società non può rinunciare al contributo che esso dà allo sviluppo. Non è eccessivo pensare che dal loro intervento nei meccanismi portanti della società derivi il notevole potere che essi stanno acquisendo, capace – forse – di modificare in meglio il capitalismo, conferendogli valori (fondati sulla cultura) più alti di quelli strettamente speculativi che ora lo connotano.
Per quanto riguarda l’Italia (e naturalmente il Nord Est), occorre mettere in chiaro una cosa: è pericoloso ostacolare l’ascesa dei knowledge workers e deprimere categorie come gli insegnanti, gli educatori, i sanitari, gli ingegneri, i chimici, ecc.: occorre invece aiutarli e, per la parte di essi che ha un lavoro subordinato, garantire a questi attori sociali uno stipendio adeguato alla vita d’oggi. Occorre inoltre far capire ai giovani che è importante diventare lavoratori della conoscenza, perché ciò significa essere legittimati a entrare nella parte più viva dell’economia e della vita civile.
Guardare oltre la crisi. Stati generali per il Nord Est – Articolo apparso sul Corriere del Veneto l’1 Dicembre 2004
Alla constatazione della crisi del Nord – Est manca un elemento che a mio parere è essenziale: una proposta rifondativa, che costituisca la base d’un nuovo corso; che tracci i solchi lungo i quali potrà scorrere la ripresa.
Simile incipit potrebbe identificarsi con un Forum da farsi in una città trainante del Nord – Est, nel quale venga messo a punto, attraverso l’esame della crisi, il passaggio dalla produzione empirica e volontaristica di oggi, a una produzione scientifico-tecnologica. Questo passaggio sembra inevitabile, e un Forum del genere potrebbe definirne le principali modalità, nel riflesso di avvenimenti di grande portata come l’apparizione dei giganti economici (la Cina, l’India, ecc.) e d’un capitalismo di nuovo tipo.
Un evento del genere sarebbe nei fatti una radunata di stati generali sommata a un buon numero di esperti, qualcosa insomma che abbia carattere “costitutivo” per tutti gli operatori economici e culturali del Nord – Est.
Questa assise dovrebbe presentare almeno due caratteri di fondo.
1 – Non essere formata soltanto da imprenditori locali – pur nella presenza d’un folto gruppo di diretti interessati. Vi prendano parte imprenditori illuminati (anche di altri contesti), economisti, sociologi, rettori di università, scienziati, creativi, ecc.. Perché la futura impresa del Nord – Est deve aprirsi alle forze culturali e scientifiche più avanzate; porre e possibilmente dare una prima risposta a problemi che oggi si pongono quasi da soli, tanto grande ne è l’urgenza. Eccone alcuni, senza ovviamente escludere che altri ne appaiano:
Che tipo di formazione deve avere l’imprenditore nel prossimo futuro? Quali conoscenze, quali lingue, quali nozioni economiche e culturali deve possedere per affrontare adeguatamente i sistemi produttivi odierni?
Come si crea un Centro di ricerca? Quali mezzi sono necessari e con quali uomini occorre interagire perché il Centro raggiunga lo scopo cui è destinato, creare prodotti o servizi nuovi, originali, invasivi?
Come e da chi può essere aiutata la ricerca?
Con quali enti esterni occorre cooperare per poter gareggiare con le aree più avanzate, e in particolare con gli imprenditori del mondo orientale?
Quali campi vengono aperti dalle nuove scoperte scientifiche, quali bisogni collettivi aspettano una risposta? Come si ottengono le informazioni di prima mano sulle recenti avventure della scienza?
Quali istituzioni (scuole, centri di formazione, università, ecc.) occorre creare o, se già esistenti, potenziare, per adeguare il personale, i manager, e gli stessi imprenditori, alle istanze produttive più avanzate?
E’ ovvio che simili questioni non possono essere risolte da una singola assise. Ma è importante cominciare la progettazione d’un nuovo corso, che richiede, prima di tutto, una scossa a livello dei principi, delle strategie fondamentali del produrre. Benché l’empirismo abbia una sua validità, avere idee strategiche adatte ai nuovi tempi è inevitabile, se si vuole entrare nel clima economico che si prospetta, molto più difficile e pieno d’insidie di quello precedente.
Nord Est e prospettive. Il punto di svolta – Articolo apparso sul Corriere del Veneto il 16 novembre 2004
Ho assistito al meeting sul Nord-est (<<Gli industriali alla prova del fare squadra>>) coordinato da Alessandra Carini il 12 novembre 2004 a Padova (Hotel Plaza), e vorrei esporre alcune impressioni che ne ho ricevuto – secondo la progressione seguente: 1) Tra le variabili che ineriscono alla crisi del Nord-est, una è rimasta lontana dal dibattito, la “conoscenza scientifica”. Dei nove partecipanti uno solo – Riccardo Illy – l’ha richiamata esplicitamente, sottolineando l’esigenza che l’impresa si adegui alla “società della conoscenza”. Su questo tema – la cui centralità è evidente – nessun altro relatore ha speso parola, se non indirettamente, mediante accenni alla necessità di salvaguardare le risorse umane (interventi di Andrea Tomat e Carlo Fratta Pasini); 2) Di conseguenza, la tematica della “Ricerca”, del come farla, del come finanziarla, è rimasta fuori dal dibattito, se si fa eccezione per l’esortazione di Massimo Calearo agli imprenditori perchè investano i loro soldi nel miglioramento dell’azienda anziché “comprarsi la casa a Cortina”. Uguale oblio sulla creazione di “Centri di ricerca” finanziati dalle imprese, senza aspettarsi soldi da enti pubblici. Eppure era proprio questo uno dei campi in cui era più necessario insistere e fare squadra; 3) Altro settore rimasto extra moenia: le difficoltà che devono essere fronteggiate da settori industriali specifici, e i rimedi conseguenti. Per esempio l’oreficeria, l’industria delle pelli, le scarpe, gli occhiali, il turismo ecc.. L’insufficienza delle autostrade e dei servizi (intervento di Cinzia Palazzetti) è risultato a chi ascoltava più importante di quanto fosse l’individuazione dei settori industriali in difficoltà; 4) Esili indicazioni sulle caratteristiche che dovrà assumere la figura imprenditoriale nel prossimo futuro. Le nuove idee su questo tema sono state, per così dire, circoscritte al “diritto dell’imprenditore di guadagnare più che può” (intervento dell’on. Maurizio Sacconi). Ma l’ovvio non fa novità. Occorreva dire se l’imprenditore del Nord-est ha o no – oggi – chances concrete di costruire qualcosa d’innovativo, di dare cioè un contributo allo scottante tema della competitività – specie di fronte ai sistemi economici emergenti, come la Cina e l’India; 5) L’impressione ricavabile dall’incontro è che vi siano pochi imprenditori illuminati che si rendono conto della delicatezza del momento (specie dinanzi alla sfida cinese); la maggioranza discute di fattori già recepiti dal tessuto economico, come la delocalizzazione, l’economia assistita, l’aiuto da parte delle banche, la critica alle burocrazie, l’incombente influenza dei media: in altre parole non arriva al clou dell’empasse odierna.
E’ conseguenziale che si punti sull’imprenditore illuminato per scuotere un insieme di attori economici di statura qualitativamente inferiore al loro peso sociale. Se – per ora – il sistema non coglie i problemi di fondo, siano benedetti i pochi che hanno compreso essere la commerciabilità dei prodotti legata, ormai, all’eccellenza e novità di questi, e dunque alla ricerca scientifica e alle idee che nei fatti rendono possibile l’aumento del livello.
Con questo non deve venir meno l’ottimismo – ma i successi verranno solo se l’arretratezza che dorme sugli allori sarà messa da parte.
Scienza e nuovo capitalismo. Quattro scenari per il Nord Est – Articolo apparso sul Corriere del Veneto il 10 novembre 2004
In un saggio che uscirà tra breve, ho indicato il capitalismo che verosimilmente si svilupperà dopo la sfida cinese come hypercognitive capitalism. Cosa vuol dire? – Che in seguito alla rivelazione della grande capacità cinese di applicare ogni sorta di scienza e tecnologia e di servirsene in chiave competitiva, lo sviluppo economico dipenderà dalla Scienza in una misura molto più radicale di quanto sia avvenuto negli ultimi decenni del XX secolo.
La vocazione iper-scientifica del nuovo capitalismo ha un’importanza rilevante per il Nord-est italiano. Vorrei tratteggiare qualche probabile effetto del nuovo corso, applicandolo in via di ipotesi al nostro Nord-est: Vediamo dunque alcuni scenari che si prospettano per il futuro prossimo:
1) Si avranno profondi cambiamenti nella figura dell’imprenditore. Il capitalismo ipercognitivo implica il tramonto dell’imprenditore avventuroso, coraggioso ma incolto, che ha avuto fortuna negli ultimi trent’anni. Esso indurrà un forte avvicinamento tra la figura imprenditoriale e quella professionale perché le due figure si riveleranno contigue nel loro inevitabile rapporto con la conoscenza. Cosa importante: il ceto imprenditoriale potrà costituire una sezione dei knowledge workers, rappresentarne cioè la parte più direttamente collegata ai fenomeni economici.
2) Cambierà il significato del termine “produzione”. Per essere un produttore significativo non sarà più sufficiente produrre una cosa qualsiasi: occorrerà produrre qualcosa di “nuovo”. Vi sarà pertanto una forte convergenza tra l’innovatore e il produttore. La produzione ripetitiva sarà minoritaria e poco significante nelle economie competitive. Per appartenere al club dei paesi avanzati sarà necessario saper realizzare una produzione costantemente rinnovabile.
3) Il vero motore dell’impresa sarà il “centro di ricerca”. Sparirà la fabbrica di tipo tayloristico. L’impresa coinciderà con l’agenzia che inventa senza tregua nuovi prodotti o servizi; per far questo essa ricorrerà all’inventività e alla creatività di uomini dotati d’un serio impianto intellettivo. La delocalizzazione del settore esecutivo aumenterà, fino a lasciare nel Nord-est solo il cervello direttivo e creativo delle imprese. E questo sarà determinante per la buona salute dell’impresa.
4) Il rapporto di dipendenza si trasformerà in rapporto di “collaborazione”. L’imprenditore dovrà farsi aiutare dai cervelli che offrono al mercato nozioni ed idee di nuovo tipo. Fatalmente cambierà la struttura del lavoro, nel senso che – con la caduta del lavoro manuale – vi sarà largo spazio per il lavoro autonomo, all’interno dell’impresa, ma anche all’esterno. I rapporti di lavoro che sorgeranno dovranno essere molto diversi dagli attuali rapporti di collaborazione (Co.Co.Co o Co.Co.Pro) che non danno garanzie al lavoratore intellettuale. La collaborazione dovrà essere attuata con criteri non solo intelligenti ma equi, ed economicamente corretti. La sociologia del lavoro sarà spinta a inventare, e la politica a disciplinare, una nuova forma di collaborazione, in guisa che il rispetto per i lavoratori intellettuali sia proprio di ogni impresa che tiene al proprio avvenire.
Oso pensare che se una qualche applicazione di simili linee produttive avesse luogo nel nostro Nord-est, quest’ultimo potrebbe affrontare più tranquillamente la sfida cinese, come qualunque sfida, per quanto temibile, si presentasse nei prossimi venti-trent’anni.
Imprese e concorrenza cinese. Un modello al capolinea – Articolo apparso sul Corriere del Veneto l’8 settembre 2004
Due importanti avvenimenti hanno segnato a fondo l’anno 2003: l’attacco angloamericano contro l’Iraq e l’esplosione non più contestabile della sfida economica cinese.
Essi hanno provocato, oltre a enormi ripercussioni di politica internazionale, l’eclissi del modello imprenditoriale comunemente accettato, facendo sorgere l’esigenza di un nuovo tipo di imprenditore. E’ apparso chiaro che la figura imprenditoriale che si era affermata negli ultimi due decenni del XX secolo non poteva reggere alle sfide del XXI secolo. Si profilava sul piano pratico una situazione pericolosa: per rientrare tra i veri produttori non bastava più gettare sul mercato qualsiasi manufatto o servizio, diventava necessario realizzare manufatti o servizi dotati di qualità scientifico-tecnologiche o creative molto più avanzate di quelle dei concorrenti.
La sfida cinese rivelava che la grande nazione asiatica non si era lasciata distrarre dal gioco di potenza che gli USA avevano fatto proprio; ma, valorizzando la possibilità di sviluppo di quella scienza che molti credevano appannaggio esclusivo degli USA, aveva impostato la propria azione sull’avanzamento scientifico e sulla creatività.
Si rivelava d’improvviso l’inadeguatezza dell’imprenditore che aveva puntato non tanto sulla conoscenza e le idee quanto sulla facile conquista di mercati secondari, sull’astuzia strategica, su doti umane volitive più che intellettive. Questo tipo d’imprenditore si trovava di fronte a scienze e tecnologie applicate da un grande paese (di un miliardo e trecentomila abitanti) sommate a una illimitata voglia di lavorare anche a basso costo.
Si profilava d’altra parte, anche da noi, la rivincita dell’imprenditore professionale e creativo che si poneva in alternativa a quello tradizionalista affidato a vecchi, rassicuranti metodi di concorrenza commerciale, e dimentico dei nuovi campi del sapere e delle nuove opportunità produttive.
Eccolo allora l’imprenditore (Veneto e di altre parti) subire l’urto d’una immagine imprenditoriale emergente. E nel momento in cui egli sognava la quiete dopo la lunga battaglia, e di potersi godere in pace i propri guadagni, ecco apparire sul ring dell’economia il suo omologo cinese, che lavora sedici ore al giorno e mostra una voglia di fare (e di sopraffare) dieci volte maggiore di quanta ne avesse lui ai suoi esordi.
C’è qualcosa di patetico in tutto ciò. Nelle regioni del miracolo economico molti tycoon di ieri si trovano di fronte alla combinazione scienza-volontà di lavorare dei cinesi, e non sanno come reagire. Si manifesta più che vero anche per gli arrivati il detto “gli esami non finiscono mai”. Ed è difficile da digerire.
Mentre vent’anni fa l’imprenditore (occidentale) aveva di fronte uno scenario di lotta economica piuttosto facile, ora lo scenario è diventato difficilissimo. Egli è costretto a pensare “quelli ne sanno più di noi”; “sono più abili e volonterosi di noi”.
Anche l’imprenditore vecchio stampo dovrà accettare il modello professionale – creativo che, dovunque applicato, si manifesta vincente. Così evolve l’economia, così nascono di tempo in tempo nuove classi di operatori, e bisognerà assimilare questa penosa ma inevitabile prospettiva.
Il Veneto e le nuove sfide. La conoscenza come ricchezza – Articolo apparso sul Corriere del Veneto il 23 luglio 2004
In un saggio dedicato al lavoro professionale pubblicato nel 2003 ho definito il capitalismo attuale col termine di <<capitalismo cognitivo>>. Con questa dizione ho inteso dire che oggigiorno il capitalismo non può vivere né svilupparsi senza i continui apporti conoscitivi che gli vengono offerti dalla scienza. In altre parole, se deprivato degli incrementi scientifici che sono in gran parte frutto della ricerca, il capitalismo non sarebbe oggi il sistema economico dominante.
In un saggio sulla sfida economica cinese che uscirà a breve, ho interpretato il capitalismo che si sta sviluppando nell’odierna Cina (e forse in India) come <<capitalismo ipercognitivo>>. Una forma capitalistica in cui la scienza sta giocando un ruolo ancora più pesante, diventando il fattore chiave della competizione internazionale, al punto da condizionare tutte le strategie economiche che si sviluppano tra i contesti produttivi già attestati e quelli (nuovi) facenti capo alle economie orientali.
Apprendo ora con grande piacere che l’Università di Padova si è piazzata tra le prime università italiane (o è già forse la prima?) e che ciò avviene perché a Padova la scienza è considerata entità fondamentale e non condizionabile. A quanto pare, dunque, il rapporto tra capitalismo e scienza l’Università di Padova se l’è posto con chiarezza, prendendo atto della situazione economica mondiale; e lo ha risolto nel senso che la scienza deve farsi aiutare dal capitale ma ha in proprio l’onere di garantire il successo del contesto economico attraverso acquisizioni, brevetti, idee nuove e così via. Questa è senza dubbio una prospettiva inedita per l’Italia, che Padova sta esprimendo con tempestività e forza in un mondo accademico generale non sempre consapevole di ciò che sta accadendo.
Finora il capitalismo, per quanto “cognitivo” (cioè bisognoso del soccorso della scienza) ha esitato e faticato non poco ad accettare la semplice verità che senza la scienza il vantaggio competitivo non esiste. E molti industriali sono ancora restii a mettersi nella logica della competizione scientifica e credono di poter procedere senza la scienza.
Si tratta dunque d’un risultato culturale fondante che Padova sta gettando nel processo economico. Esso porta a ipotizzare che l’Università di Padova possa diventare uno degli epicentri del grande confronto in cui sono in azione ambiti produttivi di miliardi di persone che possono utilizzare un numero enorme di cervelli pronti alla ricerca. Come fronteggiare nel prossimo futuro simili colossi? L’università è certamente un mezzo poderoso per gestire le battaglie che si profilano.
Vorrei proporre l’idea che il capitalismo “ipercognitivo” abbia già trovato, proprio qui da noi, nel Veneto, una risposta significativa. La percezione che abbiamo davanti un tipo nuovo di economia diventa in questa luce molto eccitante. Il Nord-est ha già in mano gli elementi ideali per sostenerne l’impatto, purché sappia includerli in un disegno strategico efficace. E l’università di Padova ha il dovere di farsi “conoscere” in Italia e all’estero per questo aspetto – a largo raggio – molto più di quanto finora abbia fatto all’ombra della tradizionale riservatezza veneta.
L’etica di servizio marchio del nuovo capitalismo – Articolo apparso su Italia Oggi il 27 Luglio 2002
Mentre durava la “società industriale”, il tessuto sociale del capitalismo appariva dominato da “classi”, cioè da raggruppamenti il cui fattore di coesione era il possesso, o l’ esclusione dal possesso, dei mezzi di produzione. Le classi fondamentali erano la classe imprenditoriale (soprattutto i proprietari delle fabbriche) e quella operaia (persone che vivevano vendendo la propria forza – lavoro). E’ questa ovviamente una semplificazione, dato che esistevano altre aggregazioni; ma le due classi indicate integravano le unioni più importanti perché su esse era imperniata la dinamica sociale e le relative lotte.
Quando comincia il periodo postindustriale (attorno agli anni ’70 del XX secolo) il capitalismo vede svilupparsi due nuovi raggruppamenti il cui rapporto con la conoscenza scientifica (mezzo di produzione fondamentale apparso appunto in quel periodo) costituisce la ragione della coesione. E’ più corretto chiamarli “ceti”, ossia insiemi di attori sociali basati sul rilievo sociale delle funzioni e sul prestigio che ne deriva.
Come detto, entrambi questi ceti devono confrontarsi col fattore “conoscenza”, ma ciò avviene in maniera differente. Essi sono:
1 – Il ceto imprenditoriale. E’ formato da operatori che sanno costituire e gestire le imprese, cioè le organizzazioni di uomini e di mezzi con cui si possono produrre beni o servizi; nella fase postindustriale, sulla base di conoscenze scientifiche – tecnologiche che caricano di valore – e rendono perciò desiderabili da parte del pubblico – tali beni o servizi. Il ceto è molto vasto e differenziato, ma il suo fondamento è dato sempre dall’ impresa, nelle diverse forme che a questa sono riconosciute dagli ordinamenti giuridici: impresa individuale, impresa collettiva, società dotata di personalità giuridica, società anonima (il cui capitale può ampiamente variare fino alla grande anonima transnazionale).
2 – Il ceto dei professionisti, ossia di coloro che, essendo in possesso di un’ abilità non generica ma specifica, acquisita nelle università o in altre scuole superiori (alias il controllo di un ramo del sapere necessario alla vita individuale e collettiva) vivono dei proventi dell’ azione professionale mediante servizi offerti a “clienti”. Questo ceto, verso la fine del XX secolo, viene da parecchi autori ricondotto alla nozione di knowledge workers, o lavoratori della conoscenza, una nozione che negli anni ’90 diventa molto importante e che attualmente è accettata dagli studiosi che vedono nel “capitale umano” la base di tutto il processo produttivo.
Il capitalismo odierno ha bisogno di entrambi questi ceti, mentre non ha altrettanto bisogno di aggregazioni sociali di altro tipo, di cui tuttavia fa uso per utilità marginali. Ciò significa che nelle società postindustriali vi sono forze umane le cui prestazioni (pur utilizzabili) possono essere surrogate (da macchine, meccanismi automatici, robot, ecc.) tanto facilmente che è improprio parlare nei loro riguardi di un bisogno reale del capitalismo.
E’ importante riconoscere che tra i due ceti (imprenditori e knowledge workers) si forma un’ ampia zona di compenetrazione, nella quale stanno numerosi operatori economici, esperti nello stesso tempo di un particolare settore dello scibile, e viceversa. Si tratta di imprenditori – professionisti o di professionisti – imprenditori che di fatto cumulano in sé entrambe le qualifiche, partendo ora dall’ uno ora dall’ altro dei due settori. Per esempio, ingegneri, informatici, esperti di comunicazione, pubblicità, fotografia, design, moda, ecc., che creano un’ azienda di cui diventano titolari o azionisti. Oppure imprenditori che acquisiscono in itinere competenze specifiche di tipo professionale, per cui è difficile dire (ad un certo punto della loro evoluzione) se sono più professionisti o più operatori economici. La fascia “mista” tende ad estendersi perché tra i due gruppi esiste un’ attrazione reciproca derivante da interessi conoscitivi, senza i quali né l’ imprenditore né il professionista possono in realtà stare sul mercato.
La complessità dei due ceti, oltre che per il grande numero delle specialità, è una conseguenza del fatto che essi rappresentano dei punti di riferimento verso i quali sono attratte altre sezioni umane. Ricadono gradualmente nel ceto imprenditoriale, per esempio, individui e gruppi che aspirano a costituirne sottospecie significative, perché adatte a certe esigenze sociali: come artigiani, operatori individuali che guardano all’ impresa come ad un approdo qualificato, dipendenti di un’ impresa che cercano di costituirne un’ altra portandosi via la competenza acquisita nella prima, ecc.. Ricadono nel ceto professionale numerosi “manager” professionalizzati che ambiscono all’ autonomia e perciò si allontanano dalla concezione del manager come burocrate dipendente. E la vasta categoria dei membri delle “burocrazie professionali”, quella parte cioè della burocrazia che è dotata di competenze professionali (formata da giuristi, ingegneri, chimici, biologi, statistici, informatici, medici, veterinari, sociologi, docenti di vario genere, esperti di scienze dell’ organizzazione, economisti, ragionieri, ecc.), la quale si discosta dal modello weberiano di burocrazia e reclama una più larga libertà di movimento e di iniziativa per poter dare efficienza all’ organizzazione burocratica.
I due ceti si sintonizzano sullo spirito acquisitivo, produttivo, e competitivo del capitalismo attraverso un’ etica di nuovo genere: un’ etica di servizio, perché basata non sulla cessione di beni, ma su performances personali in favore di individui o gruppi sociali. Un’ etica molto diversa dalle etiche che furono proprie dei protagonisti della produzione manifatturiera. Com’ è vero che i servizi hanno costituito un momento economico posteriore e diverso rispetto alla manifattura, è vero anche che la mentalità di servizio integra una fase più avanzata rispetto all’elementare rapporto produttore / compratore, che connotava tipicamente l’ epoca industriale.
Entrambi i ceti devono porre in atto prestazioni “in favore di” qualcuno, e impegnarsi a fondo perché tali prestazioni siano soddisfacenti per i rispettivi fruitori. Per entrambi dunque è essenziale avere dei “clienti” disposti a ricevere le prestazioni. Le vecchie etiche non contano più. Il capitalismo odierno non richiede sacrifici ascetici né eccessi stakanovistici, cioè sforzi produttivi titanici. Domanda invece prestazioni di qualità, atte a soddisfare bisogni sociali sempre più sofisticati. C’ è però una differenza in tema di etica nei due ceti: l’ etica di quello imprenditoriale ha come sfondo la rimunerazione vantaggiosa di ciò che viene fatto e dunque il guadagno, che diviene un obiettivo primario; l’etica di quello professionale riposa sull’ impegno nel livello quantitativo del servizio e sul prestigio che ne deriva per il singolo operatore. Ma per entrambi i ceti è difficile stare sul mercato se non si pone in atto questo tipo di etica.
Essa rappresenta ciò che rimane del lato altruistico del sistema, nella misura in cui fa corrispondere l’ altruismo con la buona qualità del servizio. In sostanza il comportamento di una persona è etico se ciò che realizza in favore di terzi è di alta qualità, coerente con le conoscenze più avanzate, ed efficiente. Rispetto alle etiche ascetiche del passato, inclusa quella weberiana del beruf, la nuova etica di servizio si basa essenzialmente sulla capacità di fornire un prodotto di qualità (e perciò competitivo) nell’ attuazione dell’ attività personale. In questo senso l’ etica moderna dei due ceti è un’ etica sociale, che però non ha più nulla di missionario o di mistico, e molto di pragmatico e di sensibile al soddisfacimento delle attese. Un’ etica che è protesa ai risultati, intesi come rispetto delle aspettative.
Non si può negare la sua importanza come veicolo morale d’ un capitalismo che punta all’ eccellenza, e che, per attuare quest’ultima, instaura una competizione incessante, la quale non ammette distrazioni o negligenze. L’attuale spirito del capitalismo coincide in gran parte con questo eterno, mai interrotto, confronto. Anche la crisi di questo capitalismo è, non a caso, una crisi etica; essa esplode, con varie manifestazioni, attorno a noi, e noi siamo, forse, proprio in mezzo alla burrasca etica che agita l’ assetto capitalistico attuale.
Scontro aperto tra scienza e capitalismo speculativo – Articolo apparso su Italia Oggi il 20 Luglio 2002
Il rapporto del capitalismo con la scienza subisce un’ impennata memorabile negli anni ’70 del XX secolo. Inizia in quel decennio, in quasi tutti i paesi occidentali, la cosiddetta società postindustriale, in cui la conoscenza scientifica assume un ruolo essenziale per tutti i processi produttivi. Il momento è accompagnato da una fioritura di scoperte e applicazioni scientifiche che rende reale e concreto il connubio tra produzione e sapere. E’ l’ epoca in cui viene introdotta la miniaturizzazione dei circuiti basati su una lamina di silicio (chip) grazie all’invenzione d’un microprocessore di seconda generazione effettuata da tre ricercatori della Intel, tra i quali l’italiano Federico Faggin, nel 1971; è l’ epoca che vede lo sviluppo dei computer, della robotica, dei primi passaggi applicativi della biologia molecolare.
S’ instaura da allora una simbiosi tra capitalismo e scienza che rivela un fenomeno nuovo: per la prima volta il capitalismo viene condizionato da un potere diverso dal proprio. In altre parole da allora in avanti sarà difficile concepire una produzione qualsiasi che non abbia bisogno, per sussistere e durare, di una dotazione conoscitiva di tipo scientifico. Accanto al capitale ecco il know how; accanto ai soldi le nozioni scientifico – tecnologiche che dicono come fare cose nuove e di conseguenza aprire nuovi mercati. Ciò significa in larga misura derivare prodotti da campi scientifici prima non esplorati. Anteriormente non era così.
Questa accoppiata non fu effimera. La scienza continuò infatti nel proprio exploit costringendo il capitale a seguirla. Negli anni ’90 si ebbe un secondo momento creativo della scienza. Questa volta tennero il campo la biologia, la genetica, le biotecnologie, le cellule staminali, le nanotecnologie e così via; un insieme di scoperte e invenzioni in grado di soddisfare bisogni umani che un tempo non trovavano risposta. La scienza dimostrava coi fatti (osservazioni, indagini, ritrovati) di essere indispensabile al capitalismo.
Il legame tra capitalismo e scienza, partito in tale maniera negli anni ’70, divenne nei decenni successivi fino alla fine del secolo, una sorta di gemellaggio indissolubile. Oggi è impossibile pensare allo sviluppo del capitalismo senza far affidamento sui progressi della scienza: perciò nei paesi che hanno compreso la necessità d’incrementare senza soste lo sviluppo scientifico, la ricerca è tenuta in palmo di mano e si fa di tutto per avere nei laboratori i migliori cervelli. In pratica, i cicli innovativi dipendono in larga misura dall’avanzamento della scienza. Se quest’ ultimo si fermasse per un tempo considerevole, l’ innovazione come istituto sociale subirebbe un rallentamento inesorabile, con danno grave per tutta l’ economia.
Non si era mai visto che il capitalismo nel suo sviluppo fosse seriamente condizionato da un fattore esterno a se stesso. Con l’ avvento del postindustriale questo condizionamento diventava reale. Che cosa sarebbe oggi il capitalismo se non vi fosse un flusso continuo di contributi intellettuali? Dove finirebbe l’ innovazione (che Alvin Toffler in Future shock del 1970 intuiva essere il segno della nuova era) se la scienza non producesse di continuo nuovi mezzi di comunicazione, farmaci adatti a curare le malattie, molecole inedite, indagini ed esplorazioni del cosmo, e così via? Un capitalismo statico e tradizionalista non esiste più. Né può esistere un imprenditore che s’ ispiri veramente al tradizionalismo. In realtà la scienza ha sconvolto il capitalismo. Il sistema sociale può essere dinamico perché è la scienza che lo rende tale. I saperi, modificandosi e cumulandosi, bruciano e rendono desueto l’ esistente.
Era prevedibile tuttavia che un certo numero di esponenti del mondo capitalistico non accettasse questo singolare stato di cose. Il capitalismo ha due facce: la faccia produttiva e la faccia speculativa. Dire cos’ è la prima è abbastanza facile: si tratta del capitalismo che “produce” qualcosa, anzi qualcosa di nuovo, una sostanza, un manufatto, una nave, un aeroplano, e così via. Dire cos’ è la seconda è più difficile, perché molte sono le attività che possono dar luogo ad arricchimento pur senza produrre nulla: giochi di borsa, acquisto di aziende decotte comprate per poco e rivendute per molto, spionaggio industriale, attività parapolitica, truffe mascherate da performances benefiche, vantaggi ottenuti con la corruzione, ecc.. Si fa evidente la distinzione tra l’ “imprenditore” e l’ “uomo d’ affari”, lo “speculatore”, il “profittatore”, l’ “intrallazzatore” e simili. Il primo è un individuo dalla cui attività deriva effettivamente un bene o un servizio; gli altri, sono coloro che incassano un guadagno per vie tortuose e talvolta criminali, senza produrre nulla. La distinzione è d’ importanza cruciale nella fase presente del capitalismo.
Essa ci fa capire cos’ è avvenuto attorno gli anni ’90; una sorta d’imbarbarimento del capitalismo, pur in presenza d’una eccezionale fioritura della scienza. Nel quadro d’ una strategia messa in atto da quei capitalisti che intendono la propria attività non in un senso innovativo -produttivistico ma solo come guadagno a tutti i costi. Il Presidente Bush ha fatto recentemente appello all’esigenza di un’ “etica del capitalismo”. A quale capitalismo si riferiva? Da quale capitalismo derivano i comportamenti scorretti che il Presidente ha lamentato? Al secondo tipo di capitalismo, che specula in borsa, altera i bilanci, collude con la politica, fa inside trading, ottiene facilitazioni indebite, se ne infischia del territorio, specula sui paesi poveri e così via. L’ammonimento di Bush ha quanto meno il significato d’una presa d’atto che accanto al capitalismo buono ve n’è uno spregiudicato, corrotto e fraudolento.
Quale atteggiamento ha assunto questo secondo tipo di capitalismo verso la scienza? E’ semplice: la considera come uno “strumento” mediante il quale è possibile realizzare grandi guadagni, ma le nega in realtà ogni valore nel processo produttivo. Sull’ onda di tale atteggiamento si è formato un capitalismo finanziario che ha ripudiato l’ idea base dell’ economia postindustriale, essere la conoscenza il principio assiale della produzione. Oggi, all’inizio del XXI secolo, esiste uno scontro tra le due forme di capitalismo, quella che rispetta la scienza e quella che considera quest’ultima un puro e semplice mezzo per manipolazioni di vario genere intese ad arricchire qualcuno.
Qual è dunque la scena del capitalismo nei rapporti con la scienza in questo inizio del nuovo secolo? Vorrei sintetizzarne il senso con un’ espressione pittoresca: capitalismo e scienza sono divenuti amici / nemici. I due termini possiedono una pericolosa ambivalenza, dalla quale può derivare tanto la loro effettiva integrazione quanto una guerra sotterranea con cui ciascuno si muove contro l’ altro. Tradotto in pratica ciò significa che nei prossimi decenni sono possibili sbocchi diversi: che lo spirito del postindustriale sia mantenuto e la scienza conservi il posto di fattore essenziale nella produzione; che il capitalismo speculativo riesca ad incapsulare la scienza portando avanti la strumentalizzazione di quest’ ultima; che, ancora, la scienza riesca ad organizzarsi, a livello dei suoi esponenti e delle sue strutture, al punto di far sentire il proprio peso sul capitale finanziario, dettando a quest’ ultimo le proprie regole; che si formi un qualche imprevedibile intruglio di attività economiche e scientifiche, di cui non è dato per ora conoscere i caratteri, né dire come sarà concretamente definito.
La fenomenologia degli “amici / nemici” sembra accompagnare l’ inizio del secolo. Il confronto è aperto, e quest’ ultimo costituirà forse uno dei più delicati e interessanti spettacoli del XXI secolo.
Più democrazia per correggere le distorsioni del capitalismo – Articolo apparso su Italia Oggi il 13 Luglio 2002
Non si può dire che la tragedia dell’ 11 settembre 2001 abbia dimostrato – oltre all’ estensione del terrorismo a livello planetario – anche la svolta che molti denunciano nelle tendenze del capitalismo contemporaneo.
Su quest’ ultimo argomento la tragedia ha tuttavia indicato la presenza d’ un disagio, portando agli occhi del mondo l’aspetto finanziario, parassitario e speculativo delle società capitalistiche in netto contrasto con quello produttivo e umanitario. All’ epoca si erano già formate alcune correnti critiche che in un modo o nell’ altro hanno trovato nell’ evento dell’ 11 settembre una sorta di conferma alle rispettive tesi; e si è seriamente concretizzata la domanda di quale capitalismo sia possibile prevedere per il XXI secolo.
Non è agevole sintetizzare in un breve articolo quali siano le principali analisi aventi carattere propositivo, in vista del superamento o del miglioramento dal capitalismo globale. Cercherò di condensare queste linee di pensiero in quattro proposizioni: 1) riapparizione di una qualche forma di socialismo che dovrebbe guarire il mondo prendendo il posto del capitalismo; 2) declino dell’ egemonia unilaterale americana e creazione d’ un nuovo equilibrio geopolitico capace di eliminare le gravi disuguaglianze create dall’ attuale sistema di dominio; 3) effettuazione di interventi parziali sul sistema economico e sulle istituzioni di cooperazione internazionale per eliminare i difetti della globalizzazione; 4) estensione a tutti i contesti dei principi democratici, affidamento alla democrazia delle iniziative atte a superare i grandi problemi del mondo d’ oggi, in particolare quelli della povertà e del dissesto ecologico della Terra. – Dico subito che personalmente m’ identifico molto con quest’ ultima corrente, ma cercherò di dare un’ idea anche delle altre, per rendere il quadro delle analisi e delle proposte il più indicativo possibile.
La prima alternativa ha un capostipite di grande autorità: si tratta dello storico inglese Erich J. Hobsbaum, autore di Age of extremes. The short twentieth century, 1914 – 1991 (noto in Italia col titolo Il secolo breve). Già in quest’ opera Hobsbaum dice che la parte migliore del XX secolo corrisponde al periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, mentre l’ ultima fase del secolo (dopo la caduta dell’ Unione Sovietica) sarebbe caratterizzata da una profonda involuzione e da disastri sociali di rilevante gravità. L’ orientamento marxista di Hobsbaum lo spinge a proporre, di fronte al fenomeno globalizzazione, il ritorno a qualche forma di socialismo, che ponga rimedio ai guasti provocati, a suo dire, dal liberismo esasperato succeduto all’ equilibrio di potere USA-URSS. In Intervista sul nuovo secolo, pubblicata da Laterza nel 1999, Hobsbaum propone un modo nuovo di distribuzione della ricchezza e vede nello stato – nazione l’ unico ente ancora in grado di gestire tale funzione redistributiva. Un socialismo di stato, dunque, che non dovrebbe identificarsi con il collettivismo burocratico sovietico, ma probabilmente ne difenderebbe il ricordo in nome del principio d’ uguaglianza. – Un altro autore incline a far rinascere un qualche socialismo, è l’ economista Samir Amin. Nell’ opera Capitalism in the age of globalization uscita nel 1997, Amin mette in evidenza che nell’ ultima parte del XX secolo il mondo si è diviso in due tronconi, l’ uno ricco e consumistico l’ altro misero e indifeso: un mondo, secondo Amin, sempre più inumano ed esplosivo. Anche in questo caso viene proposta una soluzione socialista i cui caratteri concreti non vengono tuttavia precisati. La vera sfida del periodo che viviamo consisterebbe proprio nel passaggio verso una forma nuova di collettivismo tutto da inventare e sperimentare.
L’ ipotesi numero due coincide con la contestazione dell’ egemonia unilaterale americana, tanto che dal tramonto di quest’ ultima sarebbe ragionevole aspettarsi la correzione dei difetti del capitalismo globale. Questo genere di critica (oggi molto diffusa perché stimolata dalla politica estera americana ispirata in via di massima ai soli interessi della potenza egemone) è appoggiato sull’ esame degli avvenimenti geopolitici degli anni ’90 – la guerra del Golfo, la crisi cecena, l’ intervento nel Kossovo, i bombardamenti sulla Serbia, il collasso delle economie asiatiche e dell’ Argentina – dal quale si deduce la spiegazione di fenomeni impressionanti come l’ eliminazione di fatto del diritto internazionale, la nascita d’una filosofia politica che premia sempre il più forte, l’ inefficienza dell’ ONU, il diverso trattamento riservato ad arabi e israeliani, il rifiuto dei tribunali internazionali per i crimini di guerra, ecc.. L’ autore che esprime, forse con maggiore decisione, questo punto di vista è Chalmer Johnson. Nel volume Blowback. The cost and consequences of American empyre, uscito nel 2000, Johnson sostiene che il XXI secolo subirà i contraccolpi della decisione americana di mantenere un clima di guerra fredda dopo la fine di quest’ ultima, provocando reazioni che stanno mettendo a soqquadro il mondo. Il ritorno di fiamma dell’ egemonismo americano aggiungerebbe, insomma, un pesante incremento politico ai danni già provocati dalla globalizzazione economica. – Altri autori, come Bello, Soros, ecc., condividono in buona parte questo tipo di critica, la quale ovviamente ha larghe risonanze sui movimenti no-global, da Seattle in poi, e nei protagonisti della contestazione antiglobalistica, i quali attaccano le grandi istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale, il fondo Monetario Internazionale, l’ Organizzazione Mondiale per il Commercio, accusandole di essere il sostegno d’ una politica egemonica centrata sugli interessi USA, che impoverisce irrimediabilmente una larga parte del mondo.
La terza ipotesi è forse la più difficile da sintetizzare, dato che si fonda non su un unico pilastro causale, ma sull’ idea che la globalizzazione – considerata in se stessa inevitabile e non dannosa – possa essere corretta efficacemente con interventi politico – economici, parte di impegno civile, parte di miglioramento delle condizioni del lavoro, parte di promozione dello sviluppo dei paesi arretrati, parte di lotta alla povertà, di reintroduzione di sistemi di welfare, ecc., interventi volti, nel loro insieme, a ridurne le conseguenze negative, salvandone tuttavia i vantaggi e i benefici. Sembrano muoversi in quest’ ottica il sociologo Ulrich Beck (Was it globalisierung ? del 1997); Robert Gilpin (The challenge of global capitalism: the world economy in the 21st century, del 2000); e più recentemente Paolo Del Debbio (Global. Perché la globalizzazione fa bene, del 2002). I presupposti ideologici da cui partono questi ed altri autori rientranti nella corrente sono molto diversi. Tuttavia il concetto base che li ispira è questo: senza ricorrere a terapie rivoluzionarie, si possono eliminare i danni provocati dal capitalismo globale, salvando i vantaggi derivati dall’ allargamento del commercio e dello scambio tecnologico su scala planetaria. Basta scegliere con intelligenza i rimedi lasciandosi guidare da un’ etica solidaristica o da una qualche etica sociale.
Benjamin R. Barber può essere considerato un rappresentante emblematico dall’ opinione che vede nella democrazia estesa a tutti i paesi il vero rimedio contro i mali del capitalismo globale. Per Barber l’ estensione della democrazia comporta tanto il superamento del fanatismo religioso (fondamentalismo) quanto del liberismo selvaggio. Il libro di Barber che sostiene questa tesi si chiama Jihad vs McWorld, del 1995. Col termine Jihad, Barber allude a tutti i credi fanatici, con McWorld (parola mutuata da McDonald) al feticismo consumistico delle merci e del guadagno. Egli ritiene che una guerra tra Jihad e McWorld non può essere vinta né dall’ una né dall’ altra di queste tendenze. Si è liberalizzato il mercato – sostiene – ma occorre globalizzare le istituzioni democratiche che sono il vero presupposto del libero mercato e dello sviluppo; e finirla di proteggere potenze antidemocratiche per finalità strategiche o di puro potere. La democrazia, oltre ad essere un formidabile veicolo di critica nei confronti del fondamentalismo economico, può introdurre anche con leggi liberamente votate una giustizia distributiva che ponga rimedio alle disuguaglianze nascenti dal capitalismo affaristico e dal liberismo estremistico tipici del nostro tempo.
Quest’ ultima opinione sul capitalismo globale e sulla medicina adatta a guarire l’ infezione indotta dal medesimo è, a mio giudizio, la più fondata e ragionevole: la democrazia invero è il grande contenitore nel quale non solo possono essere raccolte le critiche (anche le più aspre) contro i difetti del capitalismo, ma ideati altresì i modi idonei ad eliminare tali difetti, sostanzialmente creando una maggiore giustizia e favorendo i paesi poveri che, umiliati ed offesi, minacciano ormai di rivoltarsi contro quelli ricchi. Assorbendo nel crogiolo democratico la parte più valida dei movimenti no-global.
Nessuno si nasconde quanto sia difficile estendere la democrazia a paesi oppressi da dittature, miseria, debiti, ecc.; ma questo è, probabilmente, il modo alla lunga più sicuro attraverso cui si può uscire dalla tragica contrapposizione tra mondo avanzato e mondo arretrato, una contrapposizione che costituisce il maggior guaio, nello stato di cose attuale, dato che sono già apparse forme di reazione estremamente pericolose.
La stessa molteplicità delle posizioni critiche sommariamente accennate, indica quanto siano gravi i problemi in cui si dibatte il capitalismo all’ inizio del XXI secolo, problemi che danno alimento a una crisi che non potrà non essere affrontata.
Come il nuovo secolo cercherà di risolverli costituisce l’ incandescente materia con cui dovranno confrontarsi le società occidentali e quelle che seguono il loro modello; il che presenta gravi potenzialità di sofferenza e di guerra, accanto alla speranza d’ un miglioramento generale delle condizioni dell’ umanità.