La fine dell’ egemonia mondiale degli USA – Articolo apparso su Italia Oggi il 13 Ottobre 2001
L’ avvio delle attività belliche in Afghanistan – pur con la forza dimostrativa che questo fattore possiede nella lotta contro il terrorismo – non riesce ad oscurare un dato strategico di portata planetaria: la fine dell’egemonia di una sola potenza (USA) e la contemporanea ricerca d’ un nuovo equilibrio tra le grandi potenze, consigliata, anzi resa necessaria, proprio dal tragico settembre 2001.
Due elementi recenti – la crisi economica degli anni 2000/2001 e la fase acuta del terrorismo – minano dalle fondamenta la dottrina (e la prassi) dell’ egemonia mondiale degli Stati Uniti d’ America. E’ chiaro tuttavia che il vero banco di prova di tale egemonia sono stati gli anni ’90 del XX secolo. Proprio in quel periodo, infatti, si è cercato di dimostrare: a) che l’economia degli Stati Uniti era il motore d’ una produzione d’avanguardia la quale, grazie a innovazioni scientifico – tecnologiche continue, poteva sostenere una forza militare soverchiante e imbattibile; b) che la macchina militare USA era in grado di colpire i propri nemici in ogni parte del mondo con armi tanto distruttive da rendere inutile qualsiasi reazione armata.
L’accoppiata economia-apparato militare si è concretizzata, all’inizio degli anni ’90, sul piano “economico” nella teoria dell’eccellenza dei processi produttivi e dei prodotti, specie nei confronti dei paesi industriali dell’ Asia orientale; su quello “militare” nelle guerre, limitate ma non per questo meno distruttive, che hanno segnato il decennio, e nelle loro conseguenze economiche: la guerra del Golfo, le sanzioni imposte all’Iraq, l’intervento NATO in Kossovo, i bombardamenti sulla Serbia, la politica verso la Russia durante la ribellione cecena, la protezione concessa ad Israele a danno dei palestinesi nel corso dell’ Intifada. Il cumulo di questi fattori, pur mostrando con i fatti che gli USA possedevano una forza difficilmente contrastabile, ha creato le premesse perché la loro preminenza mondiale venisse compromessa.
Il perché della nuova situazione consiste, a mio parere, in una serie di errori e di politiche discriminatorie che si possono così sintetizzare:
Anzitutto un’interpretazione sbagliata della crisi economico-politica della Russia, considerata dal mondo occidentale come una potenza in disfacimento, della quale ci si occupava soltanto per rendere inutilizzabile l’armamento atomico di cui ancora disponeva. La Russia invece rimaneva (anche dopo il crollo del sistema sovietico) una grande potenza, dotata di materie prime illimitate, di un’estensione territoriale tale da renderla interessata a quasi tutti gli scacchieri fondamentali del mondo, nonché di un patrimonio tecnico-scientifico di primo piano che con opportune politiche poteva essere riutilizzato in termini di ricerca e di applicazione in molti settori chiave. Non appena la Russia ha trovato, con Putin, una direzione politica decisa, è divenuto chiaro che il progetto di farla retrocedere a livello di potenza minore era destinato a cadere. L’ apparizione macroscopica del terrorismo internazionale ha inaspettatamente rivelato la centralità della Russia nella politica mondiale. E’ intuitivo che essa sta ora cercando di mettere ordine al suo assetto industriale, per dare una base economica ad un apparato militare in corso di ammodernamento di cui il mondo occidentale dovrà tenere conto.
La Cina è un enorme ossimoro politico. Sistema comunista che attua il proprio sviluppo mediante un capitalismo non dichiarato (il quale ha già dato risultati cospicui) la Cina ha capito che senza un salto economico di grande portata non avrebbe potuto assicurarsi l’ inattaccabilità da parte delle potenze più industrializzate. La svolta economica in senso capitalistico del regime cinese è avvenuta con Deng Xiao-Ping, grosso modo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, dopo il tracollo della cosiddetta rivoluzione culturale di Mao Tse-Tung e la scomparsa di quest’ ultimo. Curiosamente, mentre nei paesi occidentali si profilava il periodo postindustriale, in Cina aveva inizio la rivoluzione economica di Deng, che equivaleva all’ accettazione del capitalismo non come sistema ufficiale, ma solo come strumento di sviluppo economico. Negli anni ’90 la rivoluzione economica cinese ha avuto un successo tale da far comprendere a qualsiasi potenziale nemico che non era più possibile eliminare la Cina dal grande gioco internazionale. Gli Stati Uniti avevano aperto ai cinesi durante la presidenza Nixon; successivamente fecero comprendere a questi ultimi, soprattutto gestendo con durezza la questione di Taiwan, che la propria politica imperiale non era affatto cessata. All’ inizio del nuovo secolo, qualunque cosa possa accadere in merito a Taiwan, la sola esistenza d’ una potenza asiatica che brucia le tappe nella produzione industriale rende irrealistica l’ idea che un solo stato possa dettare le proprie regole a tutto il mondo.
La politica internazionale americana degli anni ’90 non differisce granché da quella che gli USA posero in atto contro l’ URSS all’ inizio della guerra fredda, dato che quando quest’ ultima finì, essi decisero di puntare sulla costituzione di un impero planetario. Era una politica d’ intervento armato nei vari ambiti territoriali in cui si profilavano situazioni non corrispondenti agli interessi americani. Una tale politica ha dato luogo a parecchi “ritorni di fiamma”. E’ questa la definizione del fenomeno ritorsivo rispetto alla politica americana usata da Chalmers Johnson nel libro Blowback. The cost and consequences of American Empire, tradotto da Garzanti Libri col titolo Gli ultimi giorni dell’ Impero Americano, 2001. Il tremendo impatto dell’ 11 settembre 2001 sullo scenario internazionale, sembra destinato a provocare un ripensamento di questa politica, e un riconoscimento più o meno esplicito degli errori di prospettiva su cui essa si fondava. Simile politica considerava in modo completamente diverso i paesi industrialmente avanzati e quelli arretrati in fatto di industrie, ai quali ultimi riservava un trattamento di netta subordinazione agli interessi economici del mondo industrializzato. Non sembra seriamente contestabile che i paesi islamici, privi in gran parte di industrie avanzate, abbiano pagato un prezzo molto alto in seguito a questa opzione; sono stati colpiti infatti da una serie sistematica di umiliazioni che hanno aggravato oltre i limiti del sopportabile il senso di secondarietà che già da tempo li caratterizzava. Se si tiene conto che l’ atteggiamento israeliano verso i palestinesi ha ignorato l’ esigenza di comporre, con senso di giustizia per entrambe le parti, un conflitto che durava da cinquant’anni e che si era inasprito a causa degli insediamenti dei coloni israeliani in terra palestinese, si può comprendere come questo fattore rappresenti oggi una delle fonti più laceranti della contrapposizione tra il mondo islamico e quello occidentale. Di qui l’ esigenza, solo ora sentita concretamente dagli USA, di arrivare ad un “appeasement” nel settore medio – orientale.
In un tale quadro generale, l’ attacco americano contro l’ Afghanistan difficilmente può essere considerato come un mezzo valido per salvare la strategia dell’ unica potenza egemone o per ripristinarne i maggiori contenuti: indipendentemente dal fatto che esso riesca a eliminare il terrorismo in un tempo ragionevole, quella strategia appare in gravi difficoltà.
E’ probabile, invece, che quest’ attacco diventi lo spartiacque storico tra il periodo in cui si poteva ritenere realizzabile una politica di egemonia planetaria, e quello in cui quest’ ultima sarà definitivamente accantonata, in vista di un equilibrio nuovo, basato non su una sola ma su più grandi potenze, dislocate su tutta la superficie della Terra.