Più democrazia per correggere le distorsioni del capitalismo

Più democrazia per correggere le distorsioni del capitalismo – Articolo apparso su Italia Oggi il 13 Luglio 2002

Non si può dire che la tragedia dell’ 11 settembre 2001 abbia dimostrato – oltre all’ estensione del terrorismo a livello planetario – anche la svolta che molti denunciano nelle tendenze del capitalismo contemporaneo.
Su quest’ ultimo argomento la tragedia ha tuttavia indicato la presenza d’ un disagio, portando agli occhi del mondo l’aspetto finanziario, parassitario e speculativo delle società capitalistiche in netto contrasto con quello produttivo e umanitario. All’ epoca si erano già formate alcune correnti critiche che in un modo o nell’ altro hanno trovato nell’ evento dell’ 11 settembre una sorta di conferma alle rispettive tesi; e si è seriamente concretizzata la domanda di quale capitalismo sia possibile prevedere per il XXI secolo.
Non è agevole sintetizzare in un breve articolo quali siano le principali analisi aventi carattere propositivo, in vista del superamento o del miglioramento dal capitalismo globale. Cercherò di condensare queste linee di pensiero in quattro proposizioni: 1) riapparizione di una qualche forma di socialismo che dovrebbe guarire il mondo prendendo il posto del capitalismo; 2) declino dell’ egemonia unilaterale americana e creazione d’ un nuovo equilibrio geopolitico capace di eliminare le gravi disuguaglianze create dall’ attuale sistema di dominio; 3) effettuazione di interventi parziali sul sistema economico e sulle istituzioni di cooperazione internazionale per eliminare i difetti della globalizzazione; 4) estensione a tutti i contesti dei principi democratici, affidamento alla democrazia delle iniziative atte a superare i grandi problemi del mondo d’ oggi, in particolare quelli della povertà e del dissesto ecologico della Terra. – Dico subito che personalmente m’ identifico molto con quest’ ultima corrente, ma cercherò di dare un’ idea anche delle altre, per rendere il quadro delle analisi e delle proposte il più indicativo possibile.
La prima alternativa ha un capostipite di grande autorità: si tratta dello storico inglese Erich J. Hobsbaum, autore di Age of extremes. The short twentieth century, 1914 – 1991 (noto in Italia col titolo Il secolo breve). Già in quest’ opera Hobsbaum dice che la parte migliore del XX secolo corrisponde al periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, mentre l’ ultima fase del secolo (dopo la caduta dell’ Unione Sovietica) sarebbe caratterizzata da una profonda involuzione e da disastri sociali di rilevante gravità. L’ orientamento marxista di Hobsbaum lo spinge a proporre, di fronte al fenomeno globalizzazione, il ritorno a qualche forma di socialismo, che ponga rimedio ai guasti provocati, a suo dire, dal liberismo esasperato succeduto all’ equilibrio di potere USA-URSS. In Intervista sul nuovo secolo, pubblicata da Laterza nel 1999, Hobsbaum propone un modo nuovo di distribuzione della ricchezza e vede nello stato – nazione l’ unico ente ancora in grado di gestire tale funzione redistributiva. Un socialismo di stato, dunque, che non dovrebbe identificarsi con il collettivismo burocratico sovietico, ma probabilmente ne difenderebbe il ricordo in nome del principio d’ uguaglianza. – Un altro autore incline a far rinascere un qualche socialismo, è l’ economista Samir Amin. Nell’ opera Capitalism in the age of globalization uscita nel 1997, Amin mette in evidenza che nell’ ultima parte del XX secolo il mondo si è diviso in due tronconi, l’ uno ricco e consumistico l’ altro misero e indifeso: un mondo, secondo Amin, sempre più inumano ed esplosivo. Anche in questo caso viene proposta una soluzione socialista i cui caratteri concreti non vengono tuttavia precisati. La vera sfida del periodo che viviamo consisterebbe proprio nel passaggio verso una forma nuova di collettivismo tutto da inventare e sperimentare.
L’ ipotesi numero due coincide con la contestazione dell’ egemonia unilaterale americana, tanto che dal tramonto di quest’ ultima sarebbe ragionevole aspettarsi la correzione dei difetti del capitalismo globale. Questo genere di critica (oggi molto diffusa perché stimolata dalla politica estera americana ispirata in via di massima ai soli interessi della potenza egemone) è appoggiato sull’ esame degli avvenimenti geopolitici degli anni ’90 – la guerra del Golfo, la crisi cecena, l’ intervento nel Kossovo, i bombardamenti sulla Serbia, il collasso delle economie asiatiche e dell’ Argentina – dal quale si deduce la spiegazione di fenomeni impressionanti come l’ eliminazione di fatto del diritto internazionale, la nascita d’una filosofia politica che premia sempre il più forte, l’ inefficienza dell’ ONU, il diverso trattamento riservato ad arabi e israeliani, il rifiuto dei tribunali internazionali per i crimini di guerra, ecc.. L’ autore che esprime, forse con maggiore decisione, questo punto di vista è Chalmer Johnson. Nel volume Blowback. The cost and consequences of American empyre, uscito nel 2000, Johnson sostiene che il XXI secolo subirà i contraccolpi della decisione americana di mantenere un clima di guerra fredda dopo la fine di quest’ ultima, provocando reazioni che stanno mettendo a soqquadro il mondo. Il ritorno di fiamma dell’ egemonismo americano aggiungerebbe, insomma, un pesante incremento politico ai danni già provocati dalla globalizzazione economica. – Altri autori, come Bello, Soros, ecc., condividono in buona parte questo tipo di critica, la quale ovviamente ha larghe risonanze sui movimenti no-global, da Seattle in poi, e nei protagonisti della contestazione antiglobalistica, i quali attaccano le grandi istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale, il fondo Monetario Internazionale, l’ Organizzazione Mondiale per il Commercio, accusandole di essere il sostegno d’ una politica egemonica centrata sugli interessi USA, che impoverisce irrimediabilmente una larga parte del mondo.
La terza ipotesi è forse la più difficile da sintetizzare, dato che si fonda non su un unico pilastro causale, ma sull’ idea che la globalizzazione – considerata in se stessa inevitabile e non dannosa – possa essere corretta efficacemente con interventi politico – economici, parte di impegno civile, parte di miglioramento delle condizioni del lavoro, parte di promozione dello sviluppo dei paesi arretrati, parte di lotta alla povertà, di reintroduzione di sistemi di welfare, ecc., interventi volti, nel loro insieme, a ridurne le conseguenze negative, salvandone tuttavia i vantaggi e i benefici. Sembrano muoversi in quest’ ottica il sociologo Ulrich Beck (Was it globalisierung ? del 1997); Robert Gilpin (The challenge of global capitalism: the world economy in the 21st century, del 2000); e più recentemente Paolo Del Debbio (Global. Perché la globalizzazione fa bene, del 2002). I presupposti ideologici da cui partono questi ed altri autori rientranti nella corrente sono molto diversi. Tuttavia il concetto base che li ispira è questo: senza ricorrere a terapie rivoluzionarie, si possono eliminare i danni provocati dal capitalismo globale, salvando i vantaggi derivati dall’ allargamento del commercio e dello scambio tecnologico su scala planetaria. Basta scegliere con intelligenza i rimedi lasciandosi guidare da un’ etica solidaristica o da una qualche etica sociale.
Benjamin R. Barber può essere considerato un rappresentante emblematico dall’ opinione che vede nella democrazia estesa a tutti i paesi il vero rimedio contro i mali del capitalismo globale. Per Barber l’ estensione della democrazia comporta tanto il superamento del fanatismo religioso (fondamentalismo) quanto del liberismo selvaggio. Il libro di Barber che sostiene questa tesi si chiama Jihad vs McWorld, del 1995. Col termine Jihad, Barber allude a tutti i credi fanatici, con McWorld (parola mutuata da McDonald) al feticismo consumistico delle merci e del guadagno. Egli ritiene che una guerra tra Jihad e McWorld non può essere vinta né dall’ una né dall’ altra di queste tendenze. Si è liberalizzato il mercato – sostiene – ma occorre globalizzare le istituzioni democratiche che sono il vero presupposto del libero mercato e dello sviluppo; e finirla di proteggere potenze antidemocratiche per finalità strategiche o di puro potere. La democrazia, oltre ad essere un formidabile veicolo di critica nei confronti del fondamentalismo economico, può introdurre anche con leggi liberamente votate una giustizia distributiva che ponga rimedio alle disuguaglianze nascenti dal capitalismo affaristico e dal liberismo estremistico tipici del nostro tempo.
Quest’ ultima opinione sul capitalismo globale e sulla medicina adatta a guarire l’ infezione indotta dal medesimo è, a mio giudizio, la più fondata e ragionevole: la democrazia invero è il grande contenitore nel quale non solo possono essere raccolte le critiche (anche le più aspre) contro i difetti del capitalismo, ma ideati altresì i modi idonei ad eliminare tali difetti, sostanzialmente creando una maggiore giustizia e favorendo i paesi poveri che, umiliati ed offesi, minacciano ormai di rivoltarsi contro quelli ricchi. Assorbendo nel crogiolo democratico la parte più valida dei movimenti no-global.
Nessuno si nasconde quanto sia difficile estendere la democrazia a paesi oppressi da dittature, miseria, debiti, ecc.; ma questo è, probabilmente, il modo alla lunga più sicuro attraverso cui si può uscire dalla tragica contrapposizione tra mondo avanzato e mondo arretrato, una contrapposizione che costituisce il maggior guaio, nello stato di cose attuale, dato che sono già apparse forme di reazione estremamente pericolose.
La stessa molteplicità delle posizioni critiche sommariamente accennate, indica quanto siano gravi i problemi in cui si dibatte il capitalismo all’ inizio del XXI secolo, problemi che danno alimento a una crisi che non potrà non essere affrontata.
Come il nuovo secolo cercherà di risolverli costituisce l’ incandescente materia con cui dovranno confrontarsi le società occidentali e quelle che seguono il loro modello; il che presenta gravi potenzialità di sofferenza e di guerra, accanto alla speranza d’ un miglioramento generale delle condizioni dell’ umanità.

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