Si e’ affermato un capitalismo speculativo, egemonico – Articolo apparso su Italia Oggi il 3 Luglio 2002
Fino alla metà degli anni ’90 era normale attribuire al capitalismo – uscito vincitore dalla sfida col comunismo – un significato positivo. Negli ultimi anni ’90 e nell’avvio del nuovo secolo il giudizio sul capitalismo si è fatto molto più problematico: il concetto di capitalismo è stato associato a quello di globalizzazione ed ha avuto inizio la critica alla politica egemonica USA non solo in campo economico ma anche militare.
Gli anni ’70 del XX secolo sono stati visti da molti come l’inizio di una nuova era nella produzione manifatturiera e di servizio. Iniziava in quel decennio l’epoca postindustriale, caratterizzata dall’inserimento nei processi produttivi di un fattore rivoluzionario, la conoscenza scientifico- tecnica, che diventava il quid senza il quale non era più possibile esistere e competere nel mercato mondiale. Alcuni autori furono considerati i padri di questa interpretazione d’un capitalismo fortemente cognitivo. Il loro capostipite fu Daniel Bell, seguito da Toffler, Touraine, Drucker ed altri. L’influsso che il capitalismo basato sulla conoscenza scientifico-tecnica ebbe sul mondo economico e politico fu enorme. Gli anni ’80, attraverso leaders come Ronald Reagan e Margaret Tatcher, fautori di idee liberistiche, condussero questo tipo di capitalismo a sfidare l’Unione Sovietica e a vincere la sfida planetaria. Fu conseguenziale a tale fatto il crollo del modello collettivistico-statocentrico, praticamente in tutto il mondo. La vasta letteratura che si sviluppò sulla società postindustriale fu una sorta di corollario d’un idea di capitalismo che non si fondava più sull’uso brutale del denaro, ma ricorreva ad un fattore immateriale, l’intelligenza, sostenuta dalle imponenti acquisizioni della scienza e della tecnologia, che negli anni ’70 e ’90 avevano avuto un exploit straordinario.
Ma ecco apparire, verso la fine del XX secolo, una serie di analisi che rivelavano un altro tipo di capitalismo. In generale, anziché sottolineare la componente conoscitiva del capitalismo, esse accentuano quella speculativa, di massimizzazione del profitto, nel quadro di una globalizzazione che accanto a vantaggi, ha riflessi tremendi in termini di povertà, emarginazione, caduta del diritto internazionale ecc..
Alcuni autori tra quelli che si sono occupati di questa “evoluzione” abnorme del capitalismo, hanno dato al problema un contributo concettuale importante. Per esempio il finanziere –filantropo di origine ungherese ma da molti anni trasferito negli Stati Uniti – George Soros – nel libro The crisis of global capitalism. Open society endangered del 1998, ha messo in evidenza le tendenze imperialistiche del capitalismo non tanto in termini geografici quanto di influenza sulla vita della gente; indipendentemente dal contenuto conoscitivo che il nuovo capitalismo dovrebbe portare con sé ed invece trascura. Soros ravvisa la vera nascita del capitalismo globale negli anni ’70, contemporaneamente alla crisi del petrolio. Curiosamente, per Soros gli anni ’70 non sono all’origine del capitalismo fondato sulla conoscenza, ma del capitalismo globalistico. Egli sostiene che è stato il capitale finanziario ad avere la meglio, e con esso le multinazionali; che sono stati i mercati finanziari internazionali a comprimere la sovranità degli stati nazionali. La cosa che interessa al capitalismo attuale, dice Soros, è la caccia al denaro (cioè fare soldi). Nella sua prospettiva, la conoscenza – punto saliente del postindustriale – è del tutto secondaria rispetto alla massimizzazione del profitto. “Un tempo, scrive Soros, i valori non monetari svolgevano un ruolo più importante nella vita delle persone: in particolare, si pensava che la cultura e le professioni fossero governate da valori culturali e professionali e non dovessero sottostare alla logica del profitto. Per capire in che modo il regime capitalistico attuale differisce da quelli che l’hanno preceduto, dobbiamo prendere atto del ruolo crescente del denaro come valore in sé: non è esagerato affermare che la vita delle persone è oggi governata dal denaro in misura maggiore di quanto sia mai accaduto”. Per Soros il capitalismo globale non è affatto coerente con la democrazia: esso si allea con gli interessi economici e li aiuta ad accumulare capitali, non preoccupato del fatto che essi siano o meno democratici.
Questo popperiano convinto, che con le opere e le fondazioni da lui create, auspica l’avvento di una società “aperta”, è dunque indotto a ritenere che il capitalismo attuale sia ben diverso da quello che è sorto dal connubio con la scienza; e che proprio da ciò derivino i suoi gravi difetti. Queste idee sono ribadite nel libro On globalization che Soros ha pubblicato nel 2002. E’ importante tenere presente che il finanziere- filantropo attribuisce in larga parte il fallimento del capitalismo attuale agli errori commessi dalle grandi Istituzioni di cooperazione internazionale come il Fondo Monetario Internazionale, L’Organizzazione Mondiale per il Commercio, la Banca Mondiale e lo stesso ONU: il risultato di questi errori è che non esiste più un ordine mondiale e che i paesi deboli e poveri sono abbandonati a se stessi senza alcuna difesa.
Un altro autore che ha sentito l’esigenza di capire cosa sta accadendo al capitalismo è Walden Bello, docente di Pubblica Amministrazione e Sociologia nell’Università delle Filippine. In una serie di saggi raccolti nel volume The future in balance del 2001, Bello concentra la sua analisi sulla crisi delle economie asiatiche negli anni ’90 e sull’atteggiamento egemonico USA in favore del capitale speculativo; che avrebbe portato alla caduta di quelle economie che rappresentavano un capitalismo integrato e assistito dallo stato. “Il potere della grande impresa rappresenta una dimensione del potere statunitense” dice Bello. Egli sottolinea altresì che il nuovo capitalismo ha dimenticato di favorire la democrazia, bastandogli stabilire il proprio dominio indipendentemente dalla natura democratica o meno dei sistemi politici in cui si attesta, con la conseguenza che sono stati protetti regimi illiberali come le Filippine, il Pakistan, il Brasile ecc..
Ecco allora la proposta di questo autore: realizzare un ordine alternativo (rispetto a quello che si è imposto negli anni ’90) creando istituzioni capaci di subordinare il mercato alla società, e di dare una risposta concreta ai due drammatici problemi che il capitalismo sta portando a livelli insostenibili: il problema della povertà, che ormai affligge gran parte del mondo, e quello della tutela ecologica del pianeta, dal quale dipende l’abitabilità della Terra nei prossimi decenni.
Parecchi altri autori hanno affrontato il tema: quale capitalismo? con l’intento di chiarire al grande pubblico che è in corso una trasformazione di quest’ultimo, il cui corso sembra far prevalere un capitalismo speculativo, affaristico, egemonico, su una forma di capitalismo produttivo, legato ai progressi della scienza e attento ai bisogni dei ceti disagiati. Vorrei occuparmi di questi autori in articoli successivi. L’argomento è infatti di grande peso, e strettamente legato alle prese di posizione dei movimenti no – global, la cui prima manifestazione incisiva, a Seattle, risale al 1999.
Un punto va tuttavia evidenziato fin d’ora, un punto che corrisponde alla domanda: è il capitalismo speculativo, affaristico, egemonico, compatibile con l’idea che la conoscenza scientifica è divenuta un mezzo di produzione essenziale? E’ compatibile con l’espansione d’un ceto nuovo, i “lavoratori della conoscenza” che sono la base umana di un capitalismo integrato con la scienza e con la cultura?
Quali conseguenze comporta il capitalismo che sembra espandersi sotto i nostri occhi con grande vigore, nel suo rapporto con le forze che hanno bisogno di cultura, perché vivono di professione, insegnamento, ricerca, applicazione alla vita quotidiana dei prodotti del sapere?
E’ un problema di grande spessore che esige una risposta.
Il dogmatismo religioso è dei paesi non sviluppati – Articolo apparso su Italia Oggi il 24 Ottobre 2001
La tragica giornata dell’11 settembre ha avuto, oltre a importanti conseguenze sull’equilibrio strategico tra grandi potenze, un effetto chiarificatore sul fenomeno religioso quale si presenta in questo inizio di secolo. Essa ha lumeggiato col suo stesso accadere la differente situazione in cui si trovano le religioni dogmatiche nei paesi ove l’industrialismo si è affermato e in quelli in cui quest’ultimo è assente. La nascita e lo sviluppo dell’industria: di questo si tratta. Tale fattore, ovunque si è prodotto, ha determinato il graduale distacco della gente dalla credenza nella salvezza eterna, e creato costumi affatto incoerenti con l’antica prospettiva dell’aldilà.
Tenuto presente che la società industriale è cominciata nella prima metà del XIX secolo, solo in alcuni paesi europei, per estendersi poi all’America del Nord e in un momento successivo al Giappone e a poche altre aree del mondo – ci si può rendere conto del perché oggi – a proposito di religioni – l’insieme delle società si è scomposto in due parti, legate rispettivamente all’occidente (e propaggini) e al resto del mondo. Dove il fenomeno industriale ha prosperato, il controllo della religione sulla società è in gran parte caduto: ciò è avvenuto nei paesi occidentali e in quelli che li hanno seguiti nello sforzo di creare l’industria. Negli altri, la religione ha in genere mantenuto e talvolta accresciuto il proprio potere. Nei paesi in cui l’economia primaria (basata sull’agricoltura e lo sfruttamento del suolo) è stata soppiantata dall’economia manifatturiera, le religioni dogmatiche hanno dovuto assistere al dilagare d’uno scetticismo che ha portato alla valorizzazione piena e spesso ostentata della vita terrena; in quelli la cui economia è rimasta sostanzialmente primaria, sono sopravvissute tendenze ascetiche basate sulla trascendenza, spinte talvolta fino al punto di sacrificare la vita per una qualche prospettiva ultraterrena.
I fatti di settembre hanno rivelato con molta evidenza questa spaccatura: da un lato i contesti industrializzati ormai sostanzialmente indifferenti alle “verità” religiose; dall’altro quelli rimasti alla fase preindustriale legati ancora in larga parte a tali verità e spinti in vari casi a esasperarne i contenuti e ad accettare pazzeschi itinerari di autodistruzione.
Un grande problema esistenziale sta avendo, nei due contesti, risposte antitetiche: il problema del senso. Senso, uguale “direzione della vita” circa le maggiori finalità aperte all’uomo. Una volta le religioni dogmatiche erano tipiche dispensatrici di senso, dicevano cioè agli individui in quale direzione essi dovevano andare, a quali valori dovevano credere. La cultura industriale, e ancor più quella postindustriale – succeduta alla prima a partire dagli anni ’70 – ha detto agli individui che ciascun uomo può scegliere le mete fondamentali secondo il proprio giudizio. Perciò queste culture hanno privato i rappresentanti ufficiali delle religioni dell’antico potere di imporre a tutti i fondamenti delle credenze e le direzioni del comportamento. Nei paesi occidentali, i sacerdoti, i vescovi, i cardinali, il pontefice hanno dovuto a poco a poco abbandonare il potere di direzione politica e persino etica della società, pur mantenendo un non trascurabile potere di consiglio: la politica, sia pure a fatica, ha potuto rendersi indipendente dalla religione, nonostante i ripetuti tentativi delle istituzioni religiose di mantenerne la supervisione. In fatto di morale la gente si è regolata secondo convinzioni, bisogni e interessi personali assai più che in base a precetti trascendenti.
Nei paesi non sviluppati, invece, le autorità religiose hanno mantenuto l’antica prerogativa d’imporre agli individui che cosa devono fare, anche per quanto riguarda gli aspetti più intimi, e preteso di controllare la vita politica. Quest’ultimo fatto è apparso chiaro a tutti dopo l’ascesa al potere dello ayatollah Khomeini in Iran, nel 1979; hanno cominciato allora a costituirsi i nuovi regimi teocratici; essi si sono ritagliati una tipologia inconfondibile, contrapposta non solo ai paesi occidentali, ma anche ai contesti religiosi in cui un’ élite militare manteneva il potere politico. Da quel momento si è prodotta una contrapposizione insanabile tra la democrazia come la intendono gli occidentali e il dominio delle élites teocratiche, un distacco sempre più radicale tra il fondamentalismo giunto ormai ad essere stato e le società in cui le religioni hanno perduto il tradizionale potere.
E’ importante notare che nel mondo industrializzato si è rapidamente diffusa, nella seconda parte del XX secolo, una domanda chiave: sono o non sono fondate le “verità” enunciate dalle religioni dogmatiche, quelle in particolare che riguardano l’aldilà, la vita eterna e concetti simili? Nelle società industrialmente avanzate ciascuno ha potuto rispondere come voleva a questa cruciale domanda, e la letteratura, lo spettacolo, la televisione, ecc.. hanno ammesso una grande varietà di risposte. In quelle dove la religione è al potere, la cruciale domanda è stata bloccata, e le poche risposte non conformistiche – dovute a qualche intellettuale, spesso esule dai luoghi di origine – sono state duramente avversate, o punite. La domanda mantiene tuttavia un posto centrale nella cultura mondiale, costituisce con il suo stesso porsi la prova della decadenza cui sembra destinata tutta la mentalità dogmatica, col suo approccio totalizzante e gli aspri costumi che ne derivano.
E’ possibile che l’aprirsi delle società tuttora dominate dalla religione alla mentalità occidentale – che si verificherà, speriamo, sulla scia dei tragici avvenimenti che hanno colpito l’America – produca il declino irreversibile del dogmatismo religioso in qualunque ambito esso si manifesti, e a maggior ragione anche dei residui di esso che serpeggiano tuttora nelle stesse culture occidentali.
La fine dell’ egemonia mondiale degli USA – Articolo apparso su Italia Oggi il 13 Ottobre 2001
L’ avvio delle attività belliche in Afghanistan – pur con la forza dimostrativa che questo fattore possiede nella lotta contro il terrorismo – non riesce ad oscurare un dato strategico di portata planetaria: la fine dell’egemonia di una sola potenza (USA) e la contemporanea ricerca d’ un nuovo equilibrio tra le grandi potenze, consigliata, anzi resa necessaria, proprio dal tragico settembre 2001.
Due elementi recenti – la crisi economica degli anni 2000/2001 e la fase acuta del terrorismo – minano dalle fondamenta la dottrina (e la prassi) dell’ egemonia mondiale degli Stati Uniti d’ America. E’ chiaro tuttavia che il vero banco di prova di tale egemonia sono stati gli anni ’90 del XX secolo. Proprio in quel periodo, infatti, si è cercato di dimostrare: a) che l’economia degli Stati Uniti era il motore d’ una produzione d’avanguardia la quale, grazie a innovazioni scientifico – tecnologiche continue, poteva sostenere una forza militare soverchiante e imbattibile; b) che la macchina militare USA era in grado di colpire i propri nemici in ogni parte del mondo con armi tanto distruttive da rendere inutile qualsiasi reazione armata.
L’accoppiata economia-apparato militare si è concretizzata, all’inizio degli anni ’90, sul piano “economico” nella teoria dell’eccellenza dei processi produttivi e dei prodotti, specie nei confronti dei paesi industriali dell’ Asia orientale; su quello “militare” nelle guerre, limitate ma non per questo meno distruttive, che hanno segnato il decennio, e nelle loro conseguenze economiche: la guerra del Golfo, le sanzioni imposte all’Iraq, l’intervento NATO in Kossovo, i bombardamenti sulla Serbia, la politica verso la Russia durante la ribellione cecena, la protezione concessa ad Israele a danno dei palestinesi nel corso dell’ Intifada. Il cumulo di questi fattori, pur mostrando con i fatti che gli USA possedevano una forza difficilmente contrastabile, ha creato le premesse perché la loro preminenza mondiale venisse compromessa.
Il perché della nuova situazione consiste, a mio parere, in una serie di errori e di politiche discriminatorie che si possono così sintetizzare:
Anzitutto un’interpretazione sbagliata della crisi economico-politica della Russia, considerata dal mondo occidentale come una potenza in disfacimento, della quale ci si occupava soltanto per rendere inutilizzabile l’armamento atomico di cui ancora disponeva. La Russia invece rimaneva (anche dopo il crollo del sistema sovietico) una grande potenza, dotata di materie prime illimitate, di un’estensione territoriale tale da renderla interessata a quasi tutti gli scacchieri fondamentali del mondo, nonché di un patrimonio tecnico-scientifico di primo piano che con opportune politiche poteva essere riutilizzato in termini di ricerca e di applicazione in molti settori chiave. Non appena la Russia ha trovato, con Putin, una direzione politica decisa, è divenuto chiaro che il progetto di farla retrocedere a livello di potenza minore era destinato a cadere. L’ apparizione macroscopica del terrorismo internazionale ha inaspettatamente rivelato la centralità della Russia nella politica mondiale. E’ intuitivo che essa sta ora cercando di mettere ordine al suo assetto industriale, per dare una base economica ad un apparato militare in corso di ammodernamento di cui il mondo occidentale dovrà tenere conto.
La Cina è un enorme ossimoro politico. Sistema comunista che attua il proprio sviluppo mediante un capitalismo non dichiarato (il quale ha già dato risultati cospicui) la Cina ha capito che senza un salto economico di grande portata non avrebbe potuto assicurarsi l’ inattaccabilità da parte delle potenze più industrializzate. La svolta economica in senso capitalistico del regime cinese è avvenuta con Deng Xiao-Ping, grosso modo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, dopo il tracollo della cosiddetta rivoluzione culturale di Mao Tse-Tung e la scomparsa di quest’ ultimo. Curiosamente, mentre nei paesi occidentali si profilava il periodo postindustriale, in Cina aveva inizio la rivoluzione economica di Deng, che equivaleva all’ accettazione del capitalismo non come sistema ufficiale, ma solo come strumento di sviluppo economico. Negli anni ’90 la rivoluzione economica cinese ha avuto un successo tale da far comprendere a qualsiasi potenziale nemico che non era più possibile eliminare la Cina dal grande gioco internazionale. Gli Stati Uniti avevano aperto ai cinesi durante la presidenza Nixon; successivamente fecero comprendere a questi ultimi, soprattutto gestendo con durezza la questione di Taiwan, che la propria politica imperiale non era affatto cessata. All’ inizio del nuovo secolo, qualunque cosa possa accadere in merito a Taiwan, la sola esistenza d’ una potenza asiatica che brucia le tappe nella produzione industriale rende irrealistica l’ idea che un solo stato possa dettare le proprie regole a tutto il mondo.
La politica internazionale americana degli anni ’90 non differisce granché da quella che gli USA posero in atto contro l’ URSS all’ inizio della guerra fredda, dato che quando quest’ ultima finì, essi decisero di puntare sulla costituzione di un impero planetario. Era una politica d’ intervento armato nei vari ambiti territoriali in cui si profilavano situazioni non corrispondenti agli interessi americani. Una tale politica ha dato luogo a parecchi “ritorni di fiamma”. E’ questa la definizione del fenomeno ritorsivo rispetto alla politica americana usata da Chalmers Johnson nel libro Blowback. The cost and consequences of American Empire, tradotto da Garzanti Libri col titolo Gli ultimi giorni dell’ Impero Americano, 2001. Il tremendo impatto dell’ 11 settembre 2001 sullo scenario internazionale, sembra destinato a provocare un ripensamento di questa politica, e un riconoscimento più o meno esplicito degli errori di prospettiva su cui essa si fondava. Simile politica considerava in modo completamente diverso i paesi industrialmente avanzati e quelli arretrati in fatto di industrie, ai quali ultimi riservava un trattamento di netta subordinazione agli interessi economici del mondo industrializzato. Non sembra seriamente contestabile che i paesi islamici, privi in gran parte di industrie avanzate, abbiano pagato un prezzo molto alto in seguito a questa opzione; sono stati colpiti infatti da una serie sistematica di umiliazioni che hanno aggravato oltre i limiti del sopportabile il senso di secondarietà che già da tempo li caratterizzava. Se si tiene conto che l’ atteggiamento israeliano verso i palestinesi ha ignorato l’ esigenza di comporre, con senso di giustizia per entrambe le parti, un conflitto che durava da cinquant’anni e che si era inasprito a causa degli insediamenti dei coloni israeliani in terra palestinese, si può comprendere come questo fattore rappresenti oggi una delle fonti più laceranti della contrapposizione tra il mondo islamico e quello occidentale. Di qui l’ esigenza, solo ora sentita concretamente dagli USA, di arrivare ad un “appeasement” nel settore medio – orientale.
In un tale quadro generale, l’ attacco americano contro l’ Afghanistan difficilmente può essere considerato come un mezzo valido per salvare la strategia dell’ unica potenza egemone o per ripristinarne i maggiori contenuti: indipendentemente dal fatto che esso riesca a eliminare il terrorismo in un tempo ragionevole, quella strategia appare in gravi difficoltà.
E’ probabile, invece, che quest’ attacco diventi lo spartiacque storico tra il periodo in cui si poteva ritenere realizzabile una politica di egemonia planetaria, e quello in cui quest’ ultima sarà definitivamente accantonata, in vista di un equilibrio nuovo, basato non su una sola ma su più grandi potenze, dislocate su tutta la superficie della Terra.
Se ancora una volta i burocrati salgono in cattedra. Scuola, riforma in stallo – Articolo apparso sul Corriere della Sera l’11 aprile 2001
Una delle aree in cui, nel grande corpo degli insegnanti, è visibile lo scontro tra “professionisti” e “burocrati”, è quella del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (Cnpi). L’incidenza di tale scontro sulle vicende recenti della riforma della scuola, nota come “Riordino dei cicli”, si è manifestata nei giorni scorsi a livello della definizione specifica dei curricula.
Com’ è noto, il riordino dei cicli prevede una nuova suddivisione dell’impianto scolastico : tre anni di scuola d’infanzia, un ciclo di base di sette anni (che unifica con articolazioni interne scuola elementare e scuola media), un ciclo secondario di cinque anni. La riforma, si badi, è stata approvata con il parere favorevole del Cnpi. Il 21.12.2000 il Parlamento ha approvato il Piano di Attuazione, che ha deciso l’avvio della riforma per la prima e la seconda classe del ciclo di base dal prossimo settembre. Il tassello mancante era appunto la definizione specifica dei curricula. Il Cnpi sembra aver bloccato questo passaggio, e le motivazioni profonde dell’alt sarebbero molto più burocratiche che professionali; riguarderebbero cioè soprattutto il problema degli organici, la preoccupazione che questi ultimi vengano ridotti.
Il Cnpi è stato riformato con un recente decreto legislativo (d.l. 30.06.1999 n. 233) che ha istituito gli organi collegiali seguenti: a livello centrale, il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione; a livello regionale, i Consigli Regionali dell’Istruzione; a livello locale, i Consigli Scolastici locali. Il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione e i Consigli Scolastici Provinciali e Distrettuali, restano però in carica fino all’insediamento dei nuovi organi collegiali, non ancora avvenuta. E’ perciò operante il Cnpi, organismo composto da 74 Consiglieri in carica, espressione dei Sindacati e delle Associazioni professionali, più alcuni soggetti designati dal Cnel e rappresentanti delle scuole non statali. Nella mancata approvazione del Piano di attuazione del riordino dei cicli, è opinione diffusa abbia operato non una preoccupazione di tipo meritocratico o di effettiva rappresentanza dei professionisti; ma la richiesta di ampliamento degli organici, la quale fa capo a quei Sindacati che considerano la scuola come un inesauribile serbatoio di posti.
Sembra che il ministro Tullio De Mauro abbia inviato una lettera ai membri del Cnpi in cui fa intendere che l’Amministrazione sarà molto aperta nell’accettare i suggerimenti del Cnpi medesimo, dimostrando in tal modo un forte interesse all’avvio della riforma. Può darsi che ciò dia luogo ad un cambiamento di posizione da parte di certe componenti, in vista di una ragionevole soluzione del contrasto. Quest’ultimo è tuttavia rivelatore d’una situazione che sembra destinata a durare, dato che le competenze del futuro Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione sono sostanzialmente analoghe a quelle del Cnpi, mentre il nuovo organo (36 componenti) comprende un livello elettivo (15 membri) che sarà presumibilmente dominato dai Sindacati, un livello di esponenti del mondo della cultura (15 membri) nominati dal Ministro ed estranei al mondo concreto dell’insegnamento, più 3 membri eletti dalle scuole di lingua tedesca, di lingua slovena e della Valle d’Aosta e 3 membri nominati dal Ministro in rappresentanza delle scuole pareggiate, parificate, ecc.. La componente professionale della scuola – che si contrappone nettamente a quella burocratica nel tentativo di fare della scuola un’istituzione “professionale” – ha ragione di preoccuparsi di una situazione siffatta. Ed è perciò comprensibile la tendenza, che negli ultimi tempi sembra guadagnare consensi, verso la costituzione d’un Ordine degli Insegnanti, analogo agli Ordini delle professioni intellettuali, che assicuri agli Insegnanti l’autonomia che è propria del vero lavoro intellettuale a livello di organi collegiali di rappresentanza. L’elusione del modello professionale è costata molto cara agli insegnanti italiani. Proprio il problema degli organi collegiali, finora risolto con criteri burocratici calati dall’alto, rivela questo altissimo costo.
Professionisti ? Ancora no – Articolo apparso sul Corriere della Sera il 16 febbraio 2001
Il problema è aggravato dal fatto che il governo ha accettato fin dal novembre 2000 il disegno di legge delega di Fassino per il riordino delle professioni intellettuali, riconoscendo il sistema delle professioni regolamentate mediante Ordini, e assicurando una certa disciplina alle professioni non regolamentate attraverso la via delle associazioni. Poiché non è discutibile che in se stessa l’attività di insegnamento (dotata com’è noto di uno specifico preciso) rientri nell’ambito delle <<professioni>> propriamente dette, si pone la questione di capire a quale disciplina sarà sottoposto l’insegnamento stesso rispetto al piano di Fassino.
L’ipotesi più logica (anche se osteggiata da molti) è che tale attività abbia a sua volta un Ordine (o Collegio, o Consiglio, comunque lo si voglia chiamare) analogo a quelli delle professioni riconosciute, che nel nostro Paese sono circa trentacinque. Ciò presuppone che venga emanata una legge specifica, analoga a quelle che nel corso dell’ultimo secolo hanno via via regolamentato professioni come l’ingegnere, il medico, l’avvocato, il biologo, il chimico, il commercialista, il ragioniere, lo psicologo. Il fatto che il lavoro degli insegnanti sia lavoro <<dipendente>> non impedisce certo che la relativa professione abbia un Ordine, dato che anche le professioni classiche hanno nei propri ranghi molti professionisti dipendenti, ed alcune addirittura la maggioranza.
Il procedere attraverso accordi il cui oggetto fondamentale è la sola retribuzione, non risolve certo il rebus dell’insegnamento in tempi di new economy mentre la scuola diventa un fattore che consente di gettare le basi perché gli allievi entrino nel mondo della conoscenza scientifico-tecnica, elemento portante della stessa produzione industriale. C’è da augurarsi che la prossima legislatura, compatibilmente con la situazione delle finanze pubbliche, affronti finalmente questo problema, inserendo davvero gli insegnanti verso il sistema delle professioni intellettuali.