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COMMENTO ALL’ARTICOLO DI SERGIO ROMANO “UTILITA’ DELLA SCONFITTA. ILLUSIONI DELLA VITTORIA” in LA LETTURA Corriere della Sera, Domenica 18 Agosto 2019

La conclusione teorica di questo articolo di Sergio Romano sembra essere la seguente: “Le vittorie militari nuocciono spesso ai vincitori ma possono giovare qualche volta ai Pesi sconfitti” (pag.5). L’ambiguità della massima ne svuota in parte la rilevanza, ne resta però la pretesa di stabilire un principio, cioè che possono venire premiati i vinti e puniti i vincitori.

A me sembra tuttavia che questa tesi non sia stata affatto convalidata dalla seconda guerra mondiale che ha premiato vistosamente uno dei vincitori, cioè gli Stati Uniti d’America. L’emersione di questa potenza come protagonista principale nella geopolitica è del tutto evidente. Anteriormente al primo conflitto mondiale gli USA non esistevano come potenza dominante, anche se Wilson li ha fatti scendere in campo nel medesimo,  dopo la seconda sono diventati i “padroni del mondo” ed è molto dubbio che oggi stiano perdendo questa qualifica.

Si configura invece un’altra situazione: accanto agli USA si pone una potenza, la Cina, che non esisteva come tale all’inizio della seconda guerra mondiale. Essa contende agli Stati Uniti il primato nel mondo. Ma è troppo presto per dire che ci riuscirà, perché gli USA non hanno alcuna intenzione di farsi portare via l’ambito trofeo.

Frettolosi appaiono i giudizi sull’attuale Presidente USA Donald Trump, considerato da molti commentatori inattendibile, ma che è sempre al centro delle politiche mondiali e tutt’altro che disposto a ritirarsi dalla scena. Se Donal Trump verrà rieletto presidente, chi potrà dire che gli USA stanno perdendo il primato conquistato nella seconda guerra mondiale?

La massima coniata da Sergio Romano è dunque tutt’altro che dimostrata sulla base della storia reale. Essa ipotizza solo uno degli sbocchi possibili nel gioco degli eventi che si possono verificare.

Personalmente penso che le potenzialità USA siano tutt’ora enormi e che il preannuncio di una loro prossima decadenza sia un azzardo pericoloso. Le sconfitte subite dopo la seconda guerra mondiale non sono sufficienti a decretarne l’involuzione. Vi sono esempi storici di potenze sconfitte che hanno vinto la partita finale. Esempio classico: quello dell’antica Roma umiliata da Annibale nella seconda guerra punica ma vincitrice della terza. Molto dipenderà dalla capacità di creare o scoprire nuove tecnologie e su questo terreno la battaglia tra i due contendenti  è tutt’altro che finita.

Un confronto dall’esito incerto, ma gli USA potrebbero ripetere ciò che è avvenuto negli anni ’80 del XX secolo nel duello USA – URSS. Allora il Presidente americano era Reagan, oggi è Trump. La partita è aperta, ma è imprudente dare fin d’ora  la vittoria all’una o all’altra entità sfidante, sulla base di un aforisma, come sembra fare Sergio Romano nel suo articolo.

Agosto 2019.

AUTOCOMMENTO AL SAGGIO L’UNIVERSO E NOI. COSMOLOGIA ED ESISTENZA ALLA FINE DEL XX SECOLO, Franco Angeli Editore, 25 anni dopo la pubblicazione avvenuta nel 1994

Nel 1991 pubblicai con Laterza L’uomo senza certezze e le sue qualità, nel quale sostenevo che l’idea di certezza stava abbandonando la cultura occidentale e che l’uomo senza certezze era migliore del suo predecessore ideologico-dogmatico. Nel 1994 uscì L’universo e noi per l’editore Franco Angeli. Nel Prologo sostenevo che “il decennio ’80 (del XX secolo) segnava il passaggio verso un tipo d’uomo diverso da quello che aveva dominato la società occidentale dall’inizio del secolo in avanti”. Si trattava d’un soggetto che proponeva idee quali impermanenza, complessità, irreversibilità, impredicibilità, mutamento continuo. Ciò aveva uno stretto legame con la cosmologia, teoria del cosmo emersa nella seconda parte del XX secolo. Questa scienza rendeva inevitabile il transito dell’uomo occidentale ad una concezione relativistica della vita e del mondo.

Venticinque anni dopo si può capire se questa analisi fosse corretta ed è questo lo scopo dell’articolo qui presentato. La risposta è sì, lo era. La cosmologia sta arrivando alla comprensione della gente comune. Il fatto che siamo solo un piccolissimo evento in un enorme universo evolutivo sta determinando l’avvento d’un uomo di nuovo genere. Idee come assoluto, certezza, valore indiscutibile sono in piena crisi, le ideologie sono cadute, le religioni di salvazione vengono abbandonate, le proposte cognitive sostenute solo sa deboli prove ripiegano su sè stesse, s’impone una nuova visione della condizione umana. E’ evidente che quest’ultima è irrimediabilmente problematica, segnata dalla necessità di risolvere problemi sempre nuovi. Si può constatare l’avvento d’ una mentalità relativistica che considera il mondo, la vita umana e il pensiero come condizionati, incerti e problematici, non più comunque ancorabili a qualche certezza.

Ecco infine la domanda: quali sono i veri bisogni dell’uomo nella situazione che si è creata?

Nel saggio del 1994 la risposta: Attività, Conoscenza, Comunicazione, Intimità.

Attività: una cultura attenta ai termini reali della condizione umana deve vedere nell’attività il mezzo basilare attraverso il quale la specie tutela la propria sussistenza. Via la contemplazione, via la mistica, niente di trascendente ci aiuta. Azione, invece, strettamente legata al coraggio di vivere.

Conoscenza: la conoscenza che serve soprattutto è quella scientifica, basata su metodi sperimentali. Nel momento in cui l’universo ci presenta la sua nuova identità il bisogno di conoscenza diventa per la specie umana più impellente che mai.

Comunicazione: l’unica comunicazione che conta è quella che ci fa capire i problemi degli altri e crea una collaborazione ideale tra colui che trasmette e colui che riceve, per risolvere insieme i problemi della vita. Andare verso una società capace di sostituire l’attuale desiderio di dominio con un desiderio forte di scambio intersoggettivo.

Intimità: Appena affacciato sulla visione cosmica l’uomo capisce quanto sia importante quella parte del sé che per essere segreta e separata dal segreto degli altri è definita l’intimo. Necessità dell’intimo significa che diventano obiettivi primari della nostra azione le persone che amiamo.

Da tutto questo deduco l’attualità del saggio pubblicato 25 anni fa. Chi ha compreso il significato profondo del rapporto uomo-universo arriva oggi come allora alla conclusione indicata.

In questo lungo periodo, l’interpretazione del mondo e di noi stessi ha avuto una sola contraddizione rilevante: il terrorismo di matrice religiosa. E’ stato un’estrema invocazione dell’assoluto che ha prodotto. come tutti sanno, effetti terribili. Tale fenomeno ha intersecato i 25 anni, ma non ha interrotto il percorso relativistico della cultura occidentale, oggi più che mai evidenti.

Agosto 2019.

COMMENTO AL SAGGIO DI KYLE HARPER IL DESTINO DI ROMA Clima, epidemie e la fine di un impero, Einaudi 2019

La tesi proposta da Kyle Harper (docente di lettere classiche nella University of Oklahoma) nel saggio indicato, è la seguente: la durata complessiva dell’impero romano, da Romolo alla fine, va dall’VIII secolo a. C. al V secolo d.C. Causa fondamentale della caduta fu il cambiamento climatico unito alle malattie infettive. William Mc Neill, scrive Harper, nel suo studio Plagues and Peoples (La peste nella storia) ha anticipato questa tesi : una serie di fattori naturali e geopolitici hanno reso possibile la circolazione dei germi infettivi provocando alla fine la caduta del gigante.

La tesi di Harper passa attraverso un’analisi minuziosa dei periodi nei quali i fenomeni distruttivi si produssero, con periodi di resilienza – cioè di reazione e di riorganizzazione – fino al crollo definitivo dell’impero. Il primo di tali momenti fu all’epoca di Marco Aurelio quando una pandemia interruppe l’espansione economica e demografica del sistema. Il secondo nel III secolo quando siccità, pestilenza e disordine politico portarono alla prima frana dell’insieme. Il terzo tra la fine del IV  secolo e l’inizio del V quando la forza di coesione dell’impero fu definitivamente spezzata. Nell’età di Giustiniano, con origine a Costantinopoli, si ebbe infine la pestilenza forse più grave e irrimediabile, e dunque conclusiva.

E’ di grande livello intellettuale il capitolo intitolato “L’età più felice”, l’epoca degli Antonini, nella quale si realizzò l’optimum climatico romano, al quale corrisponde la capacità di governo dell’impero affidata ad un’élite senatoriale in grado di dirigere le trenta legioni che vigilavano sulla sicurezza interna ed esterna, l’aumento della popolazione, la capacità di approvvigionamenti delle città e di Roma, lo sviluppo dell’agricoltura, ecc.

“Nel corso del I secolo, un impero costruito con conquiste militari si presentava come un ambito territoriale unificato attraverso un sistema di entrate fiscali razionali seppure eterogenee. Di tanto in tanto l’esercito romano riprendeva a organizzare qualche campagna di conquista su larga scala, ma la maggior parte della sua attività era di natura difensiva e potrebbe descriversi come un misto di ingegneria civile e di  sorveglianza locale.” (pag. 76) Ma, scrive Harper, una pestilenza si abbatte su questo sistema. Secondo l’autore si trattava di vaiolo. Il fatto che esistevano grandi città, la mancanza d’igiene, il caldo dei periodi estivi e altre causali di contagio, provocarono l’infezione. Anche la malaria si diffuse ad ampio raggio.

L’autore elenca tutte le epidemie conosciute nel periodo. Dal 65 a.C.  al 148 d.C.  si registrarono nell’impero gravissime pestilenze. Tra la metà e la fine del 168 d.C.  la pandemia detta peste antonina colpì con violenza le truppe stanziate ad Aquileia, diffondendosi poi in tutto il mondo. L’esercito stesso fu devastato. Si trattava di peste e di vaiolo.

Dopo gli Antonini si afferma la dinastia dei Severi, durante la quale si nota una nuova fioritura culturale ed economica. Sotto la dinastia dei Severi l’impero recupera il proprio equilibrio. Ma verso la fine di quel periodo dinastico ecco una nuova pestilenza. Il bilancio delle vittime è pesante. “Verso la metà del III secolo si disintegrò il sistema difensivo del Reno, attorno al 256 d.C. Franchi e Alemanni razziarono le ricche province della Gallia; di fatto nell’arco di una generazione, quel territorio fu preda di grandi saccheggi” (pag.187).

Ancora una ripresa sotto l’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) e verso la fine del IV secolo l’impero era ancora in piedi. Diocleziano nei suoi venti anni di governo (284-305 d.C.) fece molte riforme e introdusse la tetrarchia. Nel frattempo si manifestava una mutazione climatica e apparivano nuove epidemie.

Durante il regno di Giustiniano nell’impero di Oriente (dal 527 al 565 d.C.) scoppiò quella che fu chiamata Yersinia pestis trasmessa dai ratti. Si manifestava con febbre e con un bubbone rigonfio. Quando le vittime non morivano subito, apparivano in tutto il corpo delle pustole nerastre, a tale fase seguiva la morte. La peste si estese al nord Africa, alla Spagna, all’Italia, alla Gallia, alla Germania, alla Britannia e si portò via metà della popolazione. “La prima pandemia durò dall’arrivo della Y.  pestis, nel 541, al suo ultimo ruggito nel 749.” (pag. 298)

La tesi di Harper è sostenuta da una narrazione brillante, ricca di riferimenti storici, di biografie di grandi personaggi come Galeno, letterariamente sontuosa. La prosa è di prim’ordine. La tesi proposta scatenerà un dibattito perché attribuisce a cause naturali patogene ciò che altri teorici della caduta dell’impero romano hanno attribuito a ragioni politiche. Il punto di vista dell’autore è riccamente motivato. Il saggio Il destino di Roma introduce nell’interpretazione della caduta dell’impero romano un elemento nuovo che non è possibile ignorare.

Luglio 2019

Commento al saggio di ALAINE TOURAINE IN DIFESA DELLA MODERNITA’ Raffaello Cortina Editore, 2019

Quest’opera di Alaine Touraine, ben noto sociologo francese, presenta alcune caratteristiche inconfondibili. E’ un consuntivo dell’iter professionale dell’autore, che dichiara essere questa la sua ultima opera, si profonde in ringraziamenti rivolti a studiosi e collaboratori di ogni parte del mondo (“che hanno condiviso i miei interrogativi e sono rimasti convinti delle mie risposte” pag. 29), e nell’introduzione generale annuncia subito il locus di fondo identificato col termine “creatività”.

Questo tema conduce l’autore a individuare il tipo di società ch’egli vede dinnanzi a noi, da lui definita ipermoderna, in quanto categoria scalarmente superiore alla precedente definita postmoderna. “La società ipermoderna a differenza di quelle che l’hanno preceduta, produce prima di tutto creatività” (pag. 19). La creatività è dunque l’argomento principale dell’opera e – scrive l’autore – “possiamo affermare che il XXI secolo sarà quello dello scontro tra la soggettivizzazione e la desoggettivizzazione” (pag. 20). Segue una prima conclusione: “L’idea di modernità non è affidata al mondo delle macchine, è affidata a noi come creatori e liberatori di noi stressi” (pag.20). Poi prosegue “In questo libro sosterrò che è la coscienza <<piena, intera e soprattutto diretta>> della creatività umana a costituire il perno centrale dell’azione nelle società ipermoderne. In esse gli attori non solo non sono governati dalla ricerca dell’utilità individuale o collettiva, ma sono pienamente coscienti della propria creatività. Se per tanto tempo abbiamo imparato a difendere l’educazione come socializzazione, cioè come preparazione a ricoprire ruoli indispensabili alla vita sociale, ora è la creatività, rafforzata da un crescente individualismo, a indurre gli attori a decidere le finalità dei loro comportamenti,” (pag. 26) .

La conclusione di tutto il discorso è la seguente: “La modernità è il passaggio dalla legge di Dio o della natura alla legge umana cosciente della propria capacità e volontà di autocreazione, di autotrasformazione e di autodistruzione” (pag.41). In capo a tale itinerario concettuale  l’autore si dichiara avversario di ogni concezione deterministica, di tipo economico o politico e di ogni soggezione alle tecnologie e alla stessa scienza se fattore deterministico e cogente.

Un rilievo critico particolare assegna Touraine agli attori della società ipermoderna, coloro cioè che a suo parere la rendono possibile. Alla base di questa ricerca sta la costruzione d’un nuovo soggetto umano. E’ un soggetto che non dipende dall’economia, come accadeva nella società industriale, ma prende atto dell’interdipendenza tra problemi economici, sociali e problemi internazionali, nonché della vita individuale. L’autore dà atto tuttavia che questo passaggio è difficile e ancora concretamente non attuato. Esso starebbe avvenendo passando attraverso alcuni canali di  azione sociale: la fine dell’imperialismo occidentale in particolare del colonialismo, la fine dell’omofobia sessuale, l’affermazione della parità uomo donna, l’apparizione di movimenti che sostengono le nuove finalità. L’autore alla fine si dichiara cosciente delle difficoltà che presenta il passaggio da una società postindustriale ad una società ipermoderna, ma esprime ottimismo sull’argomento. Tende però a far scivolare il discorso su ciò che accade nella società francese dove appare una figura nuova, quella di Emmanuel Macron e la sua azione politica. Questo strano ripiegamento sulla situazione politica francese, ad avviso di chi scrive, banalizza l’analisi di Touraine, e comunque lascia insoluto il problema: come avverrà il passaggio tra la vecchia società e la nuova? Scrive l’autore “sono l’accettazione della nuova modernità e la rottura effettiva rispetto ai vecchi attori della società industriale a dover aprire la strada alla creazione di nuovi “attori””. (pag. 285).

Mi sembra innegabile che le conclusioni a cui giunge Touraine siano incerte e problematiche. Come spesso accade un eccesso di teoria ostacola lo sforzo mentale dell’autore che alla fine si rivela utopistico.

Osservo in particolare che Touraine non include, nel processo di trasformazione, l’esito che potrà avere il duro confronto tra USA e Cina. La lacuna in cui egli cade è indubbiamente pericolosa. Solo l’occidente infatti sembra inclinato, attraverso la tutela dei diritti soggettivi e la libertà di critica,  verso una società ipermoderna, quale l’autore descrive. La Cina per ora non mostra segni d’un passaggio a questo tipo di società. E tale fatto rischia di vanificare tutte le progressioni del mondo verso la società ipermoderna. E’ difficile, infatti, che quest’ultima possa aver luogo se una parte cospicua dell’assetto mondiale mantiene la vecchia forma, cioè in concreto quella della società industriale o postindustriale.

Luglio 2019

Commento al saggio di Guido Tonelli GENESI IL GRANDE RACCONTO DELLE ORIGINI, Feltrinelli Editore, 2019

Guido Tonelli – fisico al CERN di Ginevra, professore all’Università di Pisa, uno dei padri della scoperta del bosone di Higgs – in questo libro dedicato alla genesi del tutto, si propone di evadere la domanda “com’è nato l’universo?” cominciando dalle risposte datele dai racconti mitologici fino al presente. Ricorda che nel 1610 Galileo Galilei, professore di geometria e meccanica all’università di Padova, pubblica Sidereus nuncius, nel quale  espone il frutto delle osservazioni fatte col cannocchiale d’ un occhialaio olandese,  sulla Luna e sui satelliti di Giove. Con lui comincia, scrive Tonelli, l’intervento della scienza sulla questione; e la scienza riesce a darle una risposta soddisfacente mediante la fisica delle particelle elementari e i supertelescopi. Questi due mezzi di conoscenza portano l’uomo a rispondere razionalmente alla domanda indicata percorrendo varie fasi di avvicinamento: le osservazioni sull’allontanamento delle galassie fatte da Edwin Hubble, un astronomo che lavorava all’osservatorio di monte Wilson in California dotato del telescopio più potente dell’epoca; la teoria del Big Bang convalidata dalla scoperta del rumore cosmico di fondo da parte dagli astronomi statunitensi Arno Penzias e Robert Wilson; la teoria dell’ inflazione cosmica proposta da Alan Guth; e infine il bosone di Higgs scoperto al CERN di Ginevra nel 2012. La Genesi viene così spiegata dalla scienza, mentre il pensiero religioso continua a riferirsi alla “Genesi”, che è un libro sacro, scritto nel VI secolo a.C., quando Nabucodonosor II, dopo aver espugnato Gerusalemme e distrutto il tempio, aveva deportato il popolo ebraico ridotto alla disperazione e indotto a resistere con quel testo al quale gli ebrei si aggrappavano per sopravvivere.

Scrive Tonelli, pag. 218, “Nasce da queste suggestioni l’idea di scrivere questo libro e intitolarlo Genesi. Per consentire a tutti di fare proprio il grande racconto delle origini che la scienza moderna ci consegna, capire le nostre radici più profonde e trovarvi spunti con i quali affrontare il futuro”.

Osservo che la contrapposizione tra la scienza e la narrazione biblica non poteva essere da parte dell’autore più esplicita. Tutto nel libro è a favore della scienza. Peccato però che Tonelli non si spinga fino a indicare le conseguenze storiche di ciò che ha sostenuto. La visione biblica dell’origine del mondo costituisce infatti la base delle religioni monoteistiche che sono dunque, secondo la stessa visione di Tonelli, delle entità basate su favole, su menzogne. Tali entità tuttavia dispongono a tutt’oggi di enormi poteri, di privilegi, di ricchezze  e condizionano mentalmente milioni e milioni di persone. E’ logico inferire – sulla base di ciò che Tonelli ha constatato – che la fonte primaria di tali religioni è contraria al vero. Ciò non poteva essere dimenticato da un autore preoccupato, come egli stesso dice, del modo con cui affronteremo il futuro. Si tratta di entità sociali che emettono sentenze, assegnano orientamenti etici, accumulano ricchezze, pur essendo  esse stesse fondate su un falso clamoroso concernente l’origine del tutto. Perché Tonelli non esplicita tutto questo?

A mio parere quando un autore perviene ad una constatazione verosimile deve dirlo al suo pubblico. Tonelli, sulla versione che mistifica le origini non lo ha fatto. Per tale ragione lo sforzo analitico da lui compiuto per altri versi egregio, mi sembra in buona parte sprecato.

Giugno 2019

UN PRESIDENTE PER LA COMUNITA’ EUROPEA

Le elezioni europee del 26 maggio 2019 sono state una battaglia anche se combattuta non con armi ma con voti. Ora che ne conosciamo l’esito è ragionevole considerarne le conseguenze.

A mio parere queste possono essere così riassunte: l’Europa intesa come un’unione organica di Stati esce indenne dallo scontro tra europeisti e sovranisti-populisti, in altri termini tra le forze che volevano il proseguimento dell’esperienza unionistica e quelle che prefiguravano la fine o il rallentamento della stessa.

La strada è dunque aperta alla continuazione dell’itinerario verso un obiettivo concreto, la nascita d’un organismo unitario indipendente e capace di autodeterminarsi a fronte di altri organismi analoghi.

Esiste un modello storico al quale l’Unione può ispirarsi nel cammino verso tale obiettivo, quello degli Stati Uniti d’America. Tale modello si articola su un potere legislativo (Parlamento, Senato); un potere esecutivo (Governo); un potere economico-bancario (Banca Centrale); un potere giurisdizionale (Tribunali, Corte Suprema); un potere Presidenziale che si estende dalla politica estera alla direzione delle Forze Armate, alla strategia con cui combattere contesti ostili, alla nomina di giudici della Corte Suprema, alla difesa nazionale in caso di pericolo, alle scelte di politica economica, ecc.

L’Unione Europea può far proprio tale modello assumendo poteri analoghi che la possano omologare al già collaudato modello americano.

Essa è già dotata d’un potere legislativo (Parlamento di Strasburgo), d’un potere esecutivo (Commissione Europea), d’un potere giurisdizionale (Tribunali e Corti dei singoli Stati e dell’Unione in quanto tale), d’un potere economico-bancario (Banca Centrale Europea); ma non di un  potere presidenziale. Tale lacuna impedisce all’Unione Europea di avere la completezza operativa e l’autoreferenzialità che occorrono per essere indipendente e libera da condizionamenti esterni come lo è il prototipo americano.

Si pone per la U.E. il problema: come dotarsi di un Presidente avente poteri analoghi a quelli che ha il Presidente USA?

Una strada potrebbe essere quella di attribuire tale funzione al Presidente della Commissione Europea, un’altra di procedere all’elezione mediante suffragio diretto tra candidati alla carica, un’altra ancora d’accettare l’assunzione del ruolo presidenziale da parte di un personaggio attualmente non immaginabile.

Si può percorrere una strada o l’altra ma, a mio avviso, l’indicata dissonanza rispetto al sistema americano va eliminata, se l’Unione vuole realizzare una propria identità e indipendenza rispetto alle grandi consociazioni politiche del nostro tempo. La realizzazione d’un esercito europeo può essere un preludio ad una presidenza europea, perché il Presidente è il capo naturale delle Forze Armate, come lo è negli Stati Uniti d’America.

Maggio 2019

COMMENTO AL LIBRO: ECONOMIA FONDAMENTALE L’INFRASTRUTTURA DELLA VITA QUOTIDIANA, Giulio Einaudi Editore, 2019. Autori del volume: Collettivo dell’Economia Fondamentale: Mick Moran, Karel Williams, assistiti da Julie Froud, Sukhdev Johal e Angelo Salento

“Nel 2013 abbiamo proposto l’idea di un’economia fondamentale legata alla produzione dei beni e servizi indispensabile al benessere generale, come l’edilizia residenziale, l’istruzione, l’assistenza all’infanzia e agli anziani, la sanità, la fornitura di beni e servizi essenziali come l’acqua, il gas, l’energia, le fognature e le reti telefoniche.” (pag. 26).

Con riferimento all’Europa, l’economia fondamentale – osservano gli autori – si snoda in tre momenti. Il primo ha avuto corso nella seconda metà del XIX secolo ed è stato incentrato sulla distribuzione del gas e dell’acqua, oltre che sul miglioramento del trasporto pubblico e delle abitazioni. Il secondo si è attuato nei tre decenni che seguono la seconda guerra mondiale (il sostegno dei redditi, l’assistenza sociale e sanitaria gratuita, l’istruzione universale). Il terzo è quello che segue, negli anni ’80, l’introduzione delle politiche neoliberiste con orientamenti volti soprattutto  agli sgravi fiscali, al mercato e all’arricchimento individuale.

Nei trent’anni successivi agli anni ’80, dicono gli autori, una parte rilevante dell’economia fondamentale è stata privatizzata. Ciò ha provocato l’arresto dell’espansione dei servizi rientranti, appunto, in quel tipo di economia.  La crisi economica del 2008 ha aggravato la distruzione di tale economia. La corsa europea alle privatizzazioni e l’idea diffusa che bisogna ricavare il massimo profitto a breve termine, hanno inciso ulteriormente sul processo di abbattimento dell’economia fondamentale.

Si pone perciò, per gli autori,  il problema: come ripristinarla, come riavviare il cammino verso un sistema economico che gli autori stessi chiamano “morale”. “Opporsi alla corrosione dell’economia fondamentale messa in atto nel corso dell’ultima generazione non significa soltanto … resistere a modelli finanziari predatori e inadeguati. Significa anche ricollocare l’economia in una cornice di vincoli e di ambizioni sociali.” (pp. 99-100).

Il grande problema è dunque trovare il modo di riportare in primo piano tale economia umiliata dal sistema attuale. In particolare, per quanto riguarda l’Europa “non è sufficiente avere un reddito. C’è bisogno di un’abitazione dignitosa, per condurre una vita soddisfacente, con reti di connessione sviluppate, per un contesto popolato di parchi, biblioteche, sistemi di trasporto. L’abitazione è essenziale a prescindere dal reddito, e non si possono adeguare i sistemi e le reti di connessione solo distribuendo agli individui un reddito destinato ai consumi dei singoli.” (pag. 150).

Si tratta evidentemente di una presa di posizione contro il neoliberismo. Sembra di capire che la proposta degli autori è di reinventare i sistemi di tassazione dato che gli stati stanno esaurendo i fondi con cui finanziano i servizi previdenziali e gli investimenti che gravano sui medesimi e perciò non hanno la possibilità di intervenire in questo campo. Gli autori propongono in definitiva per tale fine di ripristinare le imposte fondiarie e le tasse di successione.

Sembra inevitabile pensare che una proposta come questa produrrà accanite discussioni. Si tratta in fondo di una critica, ripetiamo, al sistema neo liberista che domina l’occidente dagli anni ’80. Non è impossibile che una simile tematica si presenti tra le prime in Europa dopo le elezioni europee del maggio 2019. Gli autori hanno introdotto meritoriamente una tematica che prevedibilmente verrà dibattuta a fondo nei prossimi anni.

Maggio 2019

CHI FU VERAMENTE AMERIGO VESPUCCI?

Fu il navigatore che diede il nome all’America. Nel 1507 il cartografo tedesco Martin Waldseemuller, ammiratore di Vespucci, stampò una carta geografica in cui figurava la dizione “America” sull’immagine del nuovo continente, ed essa è stata universalmente accettata.

La personalità storica di Amerigo Vespucci è molto discussa per l’importanza delle scoperte da lui fatte,  le quali portarono all’idea che le terre trovate erano un nuovo continente.

Tenterò una sintesi dell’itinerario esistenziale che Vespucci ha percorso prima di arrivare ai viaggi e dopo le scoperte.

Nasce nel 1454 a Firenze figlio del notaio Nastagio Vespucci, esponente secondario della famiglia omonima, che aveva nel quartiere di Ognissanti il proprio territorio. Ebbe lezioni di latino dallo zio Giorgio Antonio, frequentò il matematico, astronomo e cartografo  fiorentino Paolo dal Pozzo Torricelli, e fu presentato a Lorenzo di Pierfrancesco de Medici, cugino del Magnifico. Questi lo assunse come “maestro di casa” e nel 1491 lo inviò a Siviglia nel fondaco diretto da Giannotto Berardi, un fiorentino che aveva la propria sede commerciale in quella città ed era stato uno dei finanziatori di Cristoforo Colombo nel primo viaggio patrocinato dai reali di Spagna. Entrò in rapporti d’affari con la colonia dei fiorentini esistente a Siviglia e intraprese il mestiere di mercante di spezie e di schiavi che praticò con successo per parecchi anni partecipando anche alla società Berardi – Colombo – Vespucci  dedita appunto a tale attività. Il commercio degli schiavi era allora considerato onorevole e Vespucci ne divenne uno degli esponenti più qualificati.

Arricchitosi con tale mestiere, Vespucci fu in grado di partecipare nel 1499 con mezzi economici propri alla spedizione organizzata da Juan de la Cosa e da Alonso Hojeda verso il nuovo continente. Al comando di alcuni vascelli si separò da Hojeda e navigò verso sud-est, penetrò a fondo nel Rio delle Amazzoni,  arrivando fino al punto in cui si apriva quello che più tardi sarebbe stato chiamato  lo Stretto di Magellano perché percorso per la prima volta, appunto, da Ferdinando Magellano.

Nel 1501 Vespucci fu chiamato dal re del Portogallo Don Manuel a capitanare una spedizione verso occidente con l’obiettivo di conoscere la terra che il Trattato di Tordesillas (1494) fatto con la mediazione del Papa, aveva assegnato al Portogallo. Tornò a Lisbona, città da cui era partito, con la certezza che la terra che aveva costeggiato per più di 4.000 chilometri non poteva essere l’Asia, ma un nuovo continente. Nel 1502 scrisse una lettera

a Lorenzo di Pierfrancesco de Medici con la relazione dei suoi viaggi, lettera che poco dopo apparve in latino col titolo Mundus novus ed ebbe una vasta diffusione.

Amerigo successivamente si ritirò a Siviglia, sposò Maria Cerezo e morì nel 1512 non lasciando memorie o altro scritto che narrasse le sue esperienze.

E’ possibile tentare un giudizio sulla personalità di Vespucci e sulla sua importanza storica? Vorrei effettuare questa valutazione nei termini seguenti, partendo dalla  personalità e arrivando alle conseguenze geopolitiche della sua azione.

Da un punto di vista psicologico Amerigo fu un individuo centrato su se stesso, rivolto a realizzare i propri scopi con la massima decisione e pronto ad ogni sacrificio personale per riuscirci.

Da un  punto di vista sociologico fu la prova vivente di un fatto molto importante: la realizzabilità dei viaggi transoceanici  effettuati tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo dipese largamente dal commercio degli schiavi, dal quale i navigatori potevano ricavare i mezzi economici indispensabili per l’allestimento delle navi e la retribuzione degli equipaggi.

Da un punto di vista cognitivo Amerigo fu il primo a  capire che le terre da lui scoperte formavano un “continente” e con ciò completò la scoperta di Colombo che aveva individuato solo quello che oggi chiamiamo Centro America e credeva di essere arrivato in Asia.

Da un punto di vista geopolitico i viaggi di Amerigo aprirono la strada del nuovo continente alla Spagna e al Portogallo, che divennero nella prima parte del XVI secolo potenze di livello mondiale, soprattutto la Spagna che con Carlo V imperatore fu egemone nell’occidente e mantenne tale preminenza per tutto il secolo XVI.

Maggio 2019

Commento al saggio di Yves Mény POPOLO MA NON TROPPO. Il malinteso democratico. Il Mulino 2019

Il saggio parte da una constatazione generale: “I partiti e gli altri corpi intermedi sono ovunque in crisi o in stato di coma. La loro sopravvivenza è sempre più legata ad artifici giuridici o finanziari che garantiscono loro ancora un po’ di respiro, nonostante la loro morte clinica.” (pag.9) “Questo piccolo mondo antico sopravvive ma attraversa un inesorabile declino e presto sarà solo l’ombra di se stesso.” (pag. 9). Si fronteggiano, dice l’autore, due entità, democrazia e popolo. “Gli avversari degli attuali sistemi politici pretendono di parlare in nome di quello stesso popolo che partiti ed élite pubbliche o private avrebbero lasciato indietro e sostengono di difendere la vera democrazia, snaturata da coloro i quali ne controllano i meccanismi.” (pag.11)

Nonostante questa perentoria conclusione, l’autore si concede una via di uscita, come dubbio sul futuro della democrazia, un sistema che (pag.15) “potrebbe anche salvarsi”. A proposito del rapporto tra populismo ed Europa, dice (pag. 206): “Nel corso di questi ultimi venticinque anni, l’Europa ha conosciuto ed ha dovuto misurarsi con la nuova categoria politica del <<populismo>> proprio in una generale fase di deideologizzazione e indebolimento dei pilastri della democrazia rappresentativa, cioè i partiti. Un secolo dopo gli Stati Uniti fa esperienza di una politica sconvolta dall’assenza e dall’evanescenza delle mediazioni sociali e politiche.” La conclusione però è possibilista: (pag.209) “Come si è già sottolineato le democrazie sono  trasformiste e capaci di digerire elementi inizialmente visti come incompatibili. Non si può escludere che esse non trovino ancora una volta nuova linfa dalle difficoltà che attraversano”.

Alle alternative prospettate dall’autore si può opporre la seguente osservazione:  esse sono troppo frettolose anzi imprudenti. Non è ancora dimostrato che la democrazia rappresentativa abbia finito di esistere, che i partiti siano agonizzanti, che il populismo la vinca sicuramente sulla democrazia. La partita è ancora aperta e la sua conclusione si vedrà nelle elezioni europee di questo maggio 2019. l’Europa, infatti, sta diventando il banco di prova della tenuta della democrazia a fronte del populismo e saranno ancora i partiti a dire l’ultima parola su questo tema. Se vinceranno quelli europeisti avrà prevalso ancora una volta la democrazia, se avranno la meglio quelli antieuropei vincerà il populismo.

Il saggio di Mény si può definire “perplesso”. Forse l’autore avrebbe potuto aspettare un poco prima di pubblicarlo. Tanto più perché egli stesso riconosce che ormai è l’Europa il banco di prova. La tematica toccata dal saggio è reale e bene interpretata, ma la soluzione del dilemma non è scontata. Mény non azzarda una soluzione definitiva e questa potrebbe essere un’Europa unita e democratica. Si vedrà tra pochi giorni quale sarà la soluzione del dilemma. O almeno dalle elezioni europee emergeranno indicazioni autorevoli sull’alternativa democrazia/populismo. Molti si aspettano che vinca la democrazia e con essa un’Europa unita. E che il populismo, di destra o di sinistra che sia, inizi la propria decadenza. L’Europa sarà riformata? E’ possibile anche questo. Dipenderà proprio dagli elettori che in definitiva sono ancora importanti in un sistema rappresentativo com’è ancora quello attuale.

Maggio 2019.

COMMENTO AL LIBRO DI ANGELO PANEBIANCO E SERGIO BELARDINELLI, ALL’ALBA DI UN NUOVO MONDO. Solo il mondo occidentale e soprattutto l’Europa potranno preservare la società aperta e rilanciare un ordine internazionale legittimo, Il Mulino, 2019- UN PRESIDENTE PER L’EUROPA?

Il libro è composto di due saggi il primo di Angelo Panebianco L’Europa sospesa tra Occidente e Oriente, il secondo di Sergio Belardinelli La Chiesa cattolica e l’Europa.

        Concentrerò la mia attenzione sul saggio di Panebianco, a mio avviso molto interessante perché presenta con rigorosa capacità analitica le alternative sulla possibilità di ripresa delle democrazie liberali;  mentre il secondo attesta perentoriamente che la Chiesa cattolica ha perduto quasi ogni ascolto, ha abbandonato la fede ed è quindi ridotta ad un’”armatura piena di vento” (pag120).

        La sintesi di Panebianco investe tutto il periodo storico successivo alla seconda guerra mondiale e l’egemonia degli USA che fa seguito a quest’ultima. Constatando l’attuale perdita di potere ed influenza della grande potenza americana e dell’Europa, causata da una crisi profonda della democrazia liberale e dall’apparizione di potenze che sembrano in grado di portare tale crisi alle estreme conseguenze, leggi la Cina e la Russia.

        Secondo Panebianco, dopo il secondo conflitto mondiale l’Europa fu protetta dagli USA e si era inoltre integrata nella Comunità Europea. Finita la Guerra Fredda “secondo molti osservatori l’America sta perdendo il primato … che ha detenuto dalla fine della seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti sarebbero entrati, secondo una interpretazione assai diffusa, in una fase di accentuato declino. Al declino concorrono cause endogene e cause esogene” (pag. 35) alle quali Panebianco dedica un’analisi accurata. “L’idea di molti osservatori è che siamo entrati in una fase nella quale assistiamo al passaggio dalla breve stagione dell’  unipolarismo americano a un nuovo multipolarismo nel quale Stati Uniti e Cina, pur essendo le due potenze più forti, dovranno comunque fare i conti con altre potenze quali Russia, India, forse anche Brasile, Indonesia, Sudafrica” (pag. 37).

        Ma, al di là di queste alternative Panebianco conclude dicendo che il mondo occidentale e in esso l’Europa ha un ruolo tutt’altro che marginale da svolgere. Ha il doppio, impegnativo compito di preservare al proprio interno la società aperta e le condizioni per la ricostituzione di un ordine internazionale legittimo. “Il futuro è aperto ad ogni possibilità … il vento, come tante volte è accaduto nella storia, può cambiare anche rapidamente” (pag. 72).

        Panebianco, tuttavia,  non si pronuncia sul come può realizzarsi questa alternativa. Per quanto riguarda l’Europa alcuni, tra i quali si pone chi scrive, pensano che l’Europa dovrebbe eleggere un Presidente al quale spetti la direzione delle forze armate, il potere esecutivo e la rappresentanza del vecchio continente. Per esempio Bernard-Henry Levy in un’intervista a cura di Marco Cicala (apparsa su Il Venerdì di La Repubblica del 19 aprile 2019) dice che “l’Europa dovrebbe cominciare la sua ripresa dall’elezione diretta a suffragio universale di un Presidente degli Stati Uniti d’Europa.” A chi scrive questa ipotesi sembra sensata ed anche attuabile senza grandi difficoltà. Probabilmente le elezioni europee del maggio 2019 diranno se essa può essere realizzata dal Parlamento di Strasburgo in tempi ragionevoli. Sarebbe una svolta decisiva per ridare all’Europa il ruolo che senza dubbio merita nell’assetto mondiale odierno. Proprio per questo le elezioni europee del maggio 2019 sono così importanti. Un Presidente, a me sembra, è l’istituzione di cui l’Europa ha bisogno per pesare ancora nel mondo dei nostri giorni.

Aprile 2019